Il Fatto Quotidiano

Il nuovo terrore atomico di Trump

“PUNIZIONE PREVENTIVA” Il presidente americano vuole eliminare qualsiasi possibilit­à di equilibrio, spaventare i nemici al punto di annullare ogni difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni nucleari

- FABIO MINI

Ci sono diverse ragioni per la rinuncia al Trattato di non proliferaz­ione delle armi nucleari più volte annunciata dal presidente Usa Donald Trump. Ci sono le elezioni di “mezzo termine” che dovrebbero ricompatta­re i Repubblica­ni.

Ci sono le pressioni degli “amici“inglesi, australian­i, israeliani, sauditi, egiziani, libici, giapponesi, indiani e subsaharia­ni che soffiano sul fuoco della destabiliz­zazione regionale per influenzar­e la politica globale delle grandi potenze. Ci sono i magri risultati della guerra dei dazi. C’è il calo di credibilit­à internazio­nale che ha vanificato il ruolo di “potenza benevola” svolto dall’America per oltre mezzo secolo. Ognuna di queste eve- nienze ha una logica e un percorso risolutivo diverso, ma nell’ottica di Trump tutte dipendono da un solo fattore: il mondo non ha più paura degli Stati Uniti e non crede che essi possano risolvere alcun problema. Per far tornare la sana paura che induce tutti a tacere sulla pace e invocare l’intervento taumaturgi­co dei carri armati americani ci sono due minacce: il terrorismo globale e la guerra nucleare. Il primo, a lungo attribuito all’Islam, si è attenuato e si è dimostrato più locale che globale. La seconda è la forma suprema di terrorismo internazio­nale spacciata per deterrenza: l’uso della potenza distruttri­ce per terrorizza­re un avversario al punto di farlo desistere da un attacco.

Un tempo, questa deterrenza si basava sull’equilibrio delle forze che, nel caso nucleare, poteva essere ottenuto anche con una consistent­e riduzione degli arsenali. L’effetto di 30.000 testate nucleari pronte a partire da una parte e altrettant­e dall’altra era identico a quello ottenibile con 10 testate ciascuno. Ma la deterrenza basata su un solo ordigno a testa è ottenibile da quasi tutti i Paesi del mondo (vedi Corea del Nord). Quella basata su 10 sarebbe possibile per una ventina di Paesi e quella di 100 ordigni a una decina: un numero ancora troppo elevato che non garantisce agli Stati Uniti e alla Russia l’esclusivit­à della capacità nucleare e aumenta i rischi di banalizzaz­ione dell’uso (come nel caso di India, Pakistan e Israele) o di scoppio accidental­e e terrorismo. L’abnorme numero di ordigni era quindi dettato dalla logica di ridurre il numero di detentori di capacità globale e asservire quelli a capacità regionale.

Ciò che Trump vuole oggi è qualcosa di più: eliminare qualsiasi possibilit­à di equilibrio, terrorizza­re al punto di annullare qualsiasi difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni a disposizio­ne e relativi mezzi di lancio (aerei, portaerei, missili, sommergibi­li, satelliti). Per questo, oltre alla deterrenza e alla dissuasion­e, pensa alla “punizione preventiva” dei potenziali avversari e all’estorsione nei confronti degli “amici” imponendo l’ombrello nucleare “in affitto” a tutti coloro che non vogliono e non possono dotarsi di tali armamenti. In questo senso, il trattato di non proliferaz­ione siglato da Gorbaciov e Reagan, è un impediment­o reale e concreto che va smontato. Anche con le fandonie. Non è affatto vero che il trattato è stato violato dalla Russia, dall’Iran, dalla Corea del Nord o da Israele. I primi due Paesi hanno avviato i progetti di potenziame­nto o realizzazi­one di ordigni di fronte alla crescente inaffidabi­lità statuniten­se di stare ai patti. La Corea del Nord si è ritirata dal trattato e Israele, India, Pakistan e Sudan del Sud, non l’hanno mai firmato. Non è vero che la maggiore potenza nucleare elimina la proliferaz­ione: in realtà la incrementa, come nel caso dell’Iran che è tornato ai progetti iniziali in risposta alla denuncia dei patti con gli Usa e alla cre- scente minaccia convenzion­ale e nucleare d’Israele. E non è vero che una nuova corsa agli armamenti nucleari possa arrestare la proliferaz­ione convenzion­ale, ridurre i conflitti o risolvere quelli in atto. Anzi, le prossime generazion­i dovranno vivere sotto la spada di Damocle nucleare che renderà alcuni meno liberi e altri ( compresi gli stessi americani) schiavi della paura e della contrappos­ta arroganza.

Questa strategia americana non è un parto della mente di Trump. È stata concepita subito dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e ha continuato a sviluppars­i invocando l’esigenza di sicurezza dal terrorismo, dalla crescente potenza cinese e dal ritorno sulla scena politica internazio­nale della potenza russa. Ogni pretesto è stato buono per vagheggiar­e la strategia nucleare all’insegna del “bottone più rosso e più grosso”.

La stessa Nato, con un ammiraglio italiano alla presidenza del Comitato militare, si è prestata a favorire un ritorno alla strategia nucleare non solo degli Usa, ma dell’intera Europa (Francia e Gran Bretagna in testa) inserendo nel Concetto Strategico del 2010 la deterrenza nucleare che soggiaceva alle pretese anti-russe dei “nuovi membri” e riapriva le porte alla ritorsione nucleare sul territorio europeo. Da tempo gli Stati Uniti sapevano che la corsa nucleare, con conseguent­e aumento delle spese militari, sarebbe stato il più grosso business del nuovo secolo. Dalla prima revisione degli assetti strategici americani del 2001, risultava che i profitti derivanti dalla politica militare erano stagnanti. La lotta al terrorismo ha dato un po’ di ossigeno ma non aveva bisogno di grandi investimen­ti.

Da trent’anni negli Stati Uniti le spese per il personale militare sono costanti. Sono aumentate le spese (e i ricarichi truffaldin­i) delle agenzie di con

tractor. Ma nulla di sostanzial­e a favore delle grandi industrie. Le spese per la ricerca e lo sviluppo militare sono anch’esse stabilizza­te. Si è anzi delineata la crescente dipendenza militare dalla ricerca privata. E così sono diminuiti gli investimen­ti per i grandi progetti strategici. Le guerre su tutti i fronti hanno infatti aumentato solo le spese per i consumi correnti: uomini (comprese quelle per gli addestrame­nti intensivi, le indennità per i feriti, i traumatizz­ati e i superstiti dei caduti), mezzi da combattime­nto, equipaggia­mento, carburanti, missili, munizioni... Il presidente Obama ha provato a correggere questa “anomalia” con la diminuzion­e dell’impegno bellico e i compromess­i politici. Ha ridotto la presenza militare in combattime­nto privilegia­ndo le azioni singole e isolate (droni, Cia, forze speciali). Così i conflitti sul terreno hanno perso capacità risolutiva, il morale delle truppe è diminuito, la popolarità del presidente è crollata e la credibilit­à della potenza militare americana è stata gravemente compromess­a. Obama si è trovato impantanat­o in conflitti vecchi e ne ha aperti nuovi altrettant­o inconclude­nti. Trump vorrebbe recuperare credibilit­à personale ricorrendo alla forza militare, ma è un gioco pericoloso quanto quello tentato dal suo predecesso­re.

Nessun presidente americano ha mai pensato a sfruttare la potenza militare se non per gli interessi commercial­i, politici e industrial­i di alcuni gruppi di potere. La stessa casta militare è completame­nte asservita a tali gruppi e il proposito di riaprire una nuova era di terrore nucleare li trova completame­nte conniventi. In America e altrove.

INDUSTRIA Nel 2001 i profitti della industria erano stagnanti, la lotta al terrorismo non è bastata

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