LA SFIDA DEI SILENZIOSI CONTRO GLI ARRABBIATI
IN ASCESA Si stanno affacciando nuovi volti, come la governatrice dell’Iowa Kim Reynolds, l’afroamericano John James, o il miliardario Bob Hugin
Che aria tira nel campo repubblicano, alla vigilia di questo voto di Midterm attesissimo in un’America mai così divisa, destabilizzata dagli ultimi episodi di intolleranza che hanno scosso l’elettorato, la strage nella sinagoga di Pittsburgh e i pacchi esplosivi spediti da uno squinternato estremista trumpiano al gotha del Partito Democratico? I pronostici dicono che il sentimento che segnerà il voto sarà l’insofferenza di una quantità crescente di americani verso le condotte del presidente Donald Trump, le sue provocazioni, i suoi atteggiamenti che eccitano – più che pacificare – l’opinione pubblica. I risultati saranno determinati dalla quantità di aventi diritto che decideranno di andare a votare il 6 novembre: assenti e astenuti in maggioranza appartengono a minoranze razziali tradizionalmente poco coinvolte negli andamenti politici del Paese, che stavolta però hanno intercettato la necessità di frenare una Casa Bianca che non nutre simpatia per loro. Una chiara sconfitta nelle elezioni di medio termine porrà due ordini di problemi ai Repubblicani: da un lato come far convivere una presidenza tipicamente irrazionale, viscerale ed empirica anche nelle sue migliori risultanze – soprattutto economiche – come quella di Trump, con un Congresso che si configurerebbe in maggioranza contro di lui, nel nome di una “resistenza a Trump” che è stato il leitmotiv del ricompattamento dei Democratici dopo la batosta 2016, provocata dal netto slittamento a destra della classe lavoratrice bianca. Al tempo stesso si porrà il problema del 2020, ovvero di quella complessa e segmentata catena di decisioni che porteranno o un Partito Repubblicano ancora solidamente schierato a sostegno della rielezione di Trump, oppure all’avvento di una situazione “liberi tutti”, in cui la sconfitta del Midterm verrà attribuita alle politiche presidenziali e dalle crepe all’interno del partito usciranno candidature alternative.
Qui si apre l’ennesima divaricazione nella disarmonica nazione americana di questa stagione, in questo caso tutta relativa al GOP, il Grand Old
Party: in primo luogo la spaccatura netta nella base, tra i Repubblicani fedeli al vecchio stile e quanti hanno migrato il proprio spirito conservatore aggiornandolo al credo trumpiano che, se mantiene abbastanza coerenti col passato le condotte economiche e fiscali, ha invece imposto un netto cambio di rotta in una serie di questioni sociali e di sicurezza nazionale. Sarà dunque una sfida tra “arrabbiati” contro “silenziosi”, ossia quelli del post-Obama vissuto come riappropriazione purificatrice, contrapposti a coloro che vagheggiano una continuità con la Right Americadi una volta, reaganiana, meno ringhiosa e aggressiva. I media d’oltreoceano si attestano sulla madre di tutte le domande: è oggi Donald Trump il leader e la guida del Partito Repubblicano, o il bizzarro miliardario continua a essere un intruso tollerato, come il cliente ricco che riesce ad aggiudicarsi un tavolo nel ristorante pieno, grazie a laute mance?
Il voto di Midterm diventa la stazione di passaggio nella metamorfosi dell’ultimo conservatorismo americano. Comunque andranno le cose, è l’anticamera dello scontro epocale che andrà in scena a partire da subito dopo, ovvero non appena si definiranno schieramenti, strategie e alleanze per affrontare quella corsa presidenziale che ormai dura due anni. A quel punto, i temi imposti oggi da Trump per contenere il ritorno di fiamma democratico – che ha solo lui come bersaglio – non è detto che verrebbero riproposti da un Gop post-trumpiano. Ma fino al voto saranno questi gli argomenti che costituiscono l’oggetto del contendere: nazionalismo economico, rivestito di patriottismo e di furbesca disinvoltura, criminalizzazione degli immigrati con relativa imposizione di restrizioni che stuzzicano – a seconda dalla appartenenza politica – il pudore o l’orgoglio di sentirsi americani. Poi demo- nizzazione degli avversari: sciami di paranoia da Guerra Fredda, isolazionismo, un dilagante spirito anti-scientifico, illogico, strafottente nelle scelte di comando. E soprattutto quel buco nero delle posizioni presidenziali sulla razza e i conflitti connessi, dove nel migliore dei casi si assiste a penosi esercizi di equilibrismo, quando non a dichiarazioni impresentabili, le stesse che hanno convinto l’America più scettica e individualista che Trump fosse il presidente giusto per farsi gli affari propri, magari comprando armi a profusione e usandole, come nel vecchio West, o ai tempi dello “strano frutto che pende dall’albero”.
Ma c’è vita nel Partito Repubblicano, oltre Trump? Quanto è lontano da qui il conservatorismo compassionevole di George W. Bush? Si può ipotizzare un ritorno a quelle atmosfere, ovvero a prima che dai Tea Party nascesse tutto ciò? Può ricominciare a esistere come partito di opinione e non come sgangherato movimento di supporto a un personaggio orwelliano? E in quel caso, dove finirebbero gli elettori della “rivalsa”, quelli dell’America First, dello stop al politicamente corretto? Davvero una percentuale impressionante di donne americane voterà prima contro Trump che in favore di qualcuno, di- sgustate dalla impresentabilità di quest’uomo? Ebrei e neri diranno basta a colui che non riesce nemmeno a fingere d’essere il loro presidente?
Esistono alternative per un dopo-Trump repubblicano, da cui organizzare una nuova presentabilità del partito?
Qualcuno azzarda nomi, ma è presto per valutarne le possibilità: si dice bene della governatrice dell’Iowa Kim Reynolds, che arriva da un luogo pragmatico e ostenta umiltà ed ecumenismo da apparire gradita a una platea post-trumpiana. E poi è una donna, sufficientemente giovane (59 anni): due caratteristiche preziose per restituire credibilità al partito. Oppure di un afroamericano, come il candidato repubblicano al Senato del Michigan John James, 37 anni, trascorsi militari da pilota d’elicotteri, programma tradizionale, aria rassicurante, buona volontà conservatrice, un pacificatore. O un miliardario come Bob Hugin del New Jersey, che vorrebbe proporsi come un Michael Bloomberg appena un po’ più a destra, pro-choice, pro-matrimonio omosessuale, un moderato di stampo bushiano.
Per ora stanno tutti alla finestra a guardare, mentre un uomo solo non smette di strillare la propria indispensabilità e la minaccia rappresentata dai diecimila centroamericani in marcia verso la frontiera meridionale. Trump grida e l’America, piegata su se stessa, riflette. Sembra una pièce brechtiana: vedremo se nel finale risolverà in farsa o in parabola morale.