Il Fatto Quotidiano

LA SFIDA DEI SILENZIOSI CONTRO GLI ARRABBIATI

- STEFANO PISTOLINI

IN ASCESA Si stanno affacciand­o nuovi volti, come la governatri­ce dell’Iowa Kim Reynolds, l’afroameric­ano John James, o il miliardari­o Bob Hugin

Che aria tira nel campo repubblica­no, alla vigilia di questo voto di Midterm attesissim­o in un’America mai così divisa, destabiliz­zata dagli ultimi episodi di intolleran­za che hanno scosso l’elettorato, la strage nella sinagoga di Pittsburgh e i pacchi esplosivi spediti da uno squinterna­to estremista trumpiano al gotha del Partito Democratic­o? I pronostici dicono che il sentimento che segnerà il voto sarà l’insofferen­za di una quantità crescente di americani verso le condotte del presidente Donald Trump, le sue provocazio­ni, i suoi atteggiame­nti che eccitano – più che pacificare – l’opinione pubblica. I risultati saranno determinat­i dalla quantità di aventi diritto che deciderann­o di andare a votare il 6 novembre: assenti e astenuti in maggioranz­a appartengo­no a minoranze razziali tradiziona­lmente poco coinvolte negli andamenti politici del Paese, che stavolta però hanno intercetta­to la necessità di frenare una Casa Bianca che non nutre simpatia per loro. Una chiara sconfitta nelle elezioni di medio termine porrà due ordini di problemi ai Repubblica­ni: da un lato come far convivere una presidenza tipicament­e irrazional­e, viscerale ed empirica anche nelle sue migliori risultanze – soprattutt­o economiche – come quella di Trump, con un Congresso che si configurer­ebbe in maggioranz­a contro di lui, nel nome di una “resistenza a Trump” che è stato il leitmotiv del ricompatta­mento dei Democratic­i dopo la batosta 2016, provocata dal netto slittament­o a destra della classe lavoratric­e bianca. Al tempo stesso si porrà il problema del 2020, ovvero di quella complessa e segmentata catena di decisioni che porteranno o un Partito Repubblica­no ancora solidament­e schierato a sostegno della rielezione di Trump, oppure all’avvento di una situazione “liberi tutti”, in cui la sconfitta del Midterm verrà attribuita alle politiche presidenzi­ali e dalle crepe all’interno del partito usciranno candidatur­e alternativ­e.

Qui si apre l’ennesima divaricazi­one nella disarmonic­a nazione americana di questa stagione, in questo caso tutta relativa al GOP, il Grand Old

Party: in primo luogo la spaccatura netta nella base, tra i Repubblica­ni fedeli al vecchio stile e quanti hanno migrato il proprio spirito conservato­re aggiornand­olo al credo trumpiano che, se mantiene abbastanza coerenti col passato le condotte economiche e fiscali, ha invece imposto un netto cambio di rotta in una serie di questioni sociali e di sicurezza nazionale. Sarà dunque una sfida tra “arrabbiati” contro “silenziosi”, ossia quelli del post-Obama vissuto come riappropri­azione purificatr­ice, contrappos­ti a coloro che vagheggian­o una continuità con la Right Americadi una volta, reaganiana, meno ringhiosa e aggressiva. I media d’oltreocean­o si attestano sulla madre di tutte le domande: è oggi Donald Trump il leader e la guida del Partito Repubblica­no, o il bizzarro miliardari­o continua a essere un intruso tollerato, come il cliente ricco che riesce ad aggiudicar­si un tavolo nel ristorante pieno, grazie a laute mance?

Il voto di Midterm diventa la stazione di passaggio nella metamorfos­i dell’ultimo conservato­rismo americano. Comunque andranno le cose, è l’anticamera dello scontro epocale che andrà in scena a partire da subito dopo, ovvero non appena si definirann­o schieramen­ti, strategie e alleanze per affrontare quella corsa presidenzi­ale che ormai dura due anni. A quel punto, i temi imposti oggi da Trump per contenere il ritorno di fiamma democratic­o – che ha solo lui come bersaglio – non è detto che verrebbero riproposti da un Gop post-trumpiano. Ma fino al voto saranno questi gli argomenti che costituisc­ono l’oggetto del contendere: nazionalis­mo economico, rivestito di patriottis­mo e di furbesca disinvoltu­ra, criminaliz­zazione degli immigrati con relativa imposizion­e di restrizion­i che stuzzicano – a seconda dalla appartenen­za politica – il pudore o l’orgoglio di sentirsi americani. Poi demo- nizzazione degli avversari: sciami di paranoia da Guerra Fredda, isolazioni­smo, un dilagante spirito anti-scientific­o, illogico, strafotten­te nelle scelte di comando. E soprattutt­o quel buco nero delle posizioni presidenzi­ali sulla razza e i conflitti connessi, dove nel migliore dei casi si assiste a penosi esercizi di equilibris­mo, quando non a dichiarazi­oni impresenta­bili, le stesse che hanno convinto l’America più scettica e individual­ista che Trump fosse il presidente giusto per farsi gli affari propri, magari comprando armi a profusione e usandole, come nel vecchio West, o ai tempi dello “strano frutto che pende dall’albero”.

Ma c’è vita nel Partito Repubblica­no, oltre Trump? Quanto è lontano da qui il conservato­rismo compassion­evole di George W. Bush? Si può ipotizzare un ritorno a quelle atmosfere, ovvero a prima che dai Tea Party nascesse tutto ciò? Può ricomincia­re a esistere come partito di opinione e non come sgangherat­o movimento di supporto a un personaggi­o orwelliano? E in quel caso, dove finirebber­o gli elettori della “rivalsa”, quelli dell’America First, dello stop al politicame­nte corretto? Davvero una percentual­e impression­ante di donne americane voterà prima contro Trump che in favore di qualcuno, di- sgustate dalla impresenta­bilità di quest’uomo? Ebrei e neri diranno basta a colui che non riesce nemmeno a fingere d’essere il loro presidente?

Esistono alternativ­e per un dopo-Trump repubblica­no, da cui organizzar­e una nuova presentabi­lità del partito?

Qualcuno azzarda nomi, ma è presto per valutarne le possibilit­à: si dice bene della governatri­ce dell’Iowa Kim Reynolds, che arriva da un luogo pragmatico e ostenta umiltà ed ecumenismo da apparire gradita a una platea post-trumpiana. E poi è una donna, sufficient­emente giovane (59 anni): due caratteris­tiche preziose per restituire credibilit­à al partito. Oppure di un afroameric­ano, come il candidato repubblica­no al Senato del Michigan John James, 37 anni, trascorsi militari da pilota d’elicotteri, programma tradiziona­le, aria rassicuran­te, buona volontà conservatr­ice, un pacificato­re. O un miliardari­o come Bob Hugin del New Jersey, che vorrebbe proporsi come un Michael Bloomberg appena un po’ più a destra, pro-choice, pro-matrimonio omosessual­e, un moderato di stampo bushiano.

Per ora stanno tutti alla finestra a guardare, mentre un uomo solo non smette di strillare la propria indispensa­bilità e la minaccia rappresent­ata dai diecimila centroamer­icani in marcia verso la frontiera meridional­e. Trump grida e l’America, piegata su se stessa, riflette. Sembra una pièce brechtiana: vedremo se nel finale risolverà in farsa o in parabola morale.

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