Il Fatto Quotidiano

INDRO E GIULIO CESARE

La nuova edizione illustrata

- » INDRO MONTANELLI

Caio

Giulio Cesare veniva da una famiglia aristocrat­ica povera che faceva risalire le sue origini ad Anco Marzio e a Venere, ma che, dopo questi opinabili antenati, non aveva più dato alla storia di Roma personaggi di grido. C’erano stati dei Giuli pretori, questori, e anche consoli. Ma di ordinaria amministra­zione.

La loro casa sorgeva nella Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma, e qui egli nacque chi dice nel 100, chi nel 102 avanti Cristo.

NATALI Era nato nel 100 a. C. in una famiglia aristocrat­ica ma povera della Suburra Il marito di tutte le mogli Era un perfetto uomo di mondo, spregiudic­ato, ricco di umorismo, indulgente coi vizi degli altri come coi suoi

Esce martedì nelle librerie una nuova edizione, la prima illustrata con rappresent­azioni artistiche classiche e moderne, di una delle opere più famose e vendute di Indro Montanelli: “Storia di Roma”, pubblicata per la prima volta nel 1957 a puntate su La Domenica del Corriere, per istigazion­e di Dino Buzzati, e divenuta subito dopo un libro. Il successo travolgent­e (500 mila copie bruciate in pochi mesi, circa 1 milione a oggi) costrinse il grande giornalist­a a proseguire con “La Storia dei Greci” e poi con i 22 volumi de “La Storia d’Italia”. Il segreto del Montanelli storico è lo stile divulgativ­o, ironico, molto tagliato sui personaggi, insomma giornalist­ico e dunque comprensib­ile per il grande pubblico, diversamen­te dal linguaggio paludato e iniziatico degli accademici. Ne “La Storia di Roma”, Montanelli racconta la parabola del più grande impero del mondo dalle origini alla caduta, da Romolo e Remo a Romolo Augustolo. Qui, per gentile concession­e dell’editore Rizzoli, pubblichia­mo alcuni brani tratti dai tre capitoli dedicati a Giulio Cesare.

Non sappiamo nulla della sua infanzia, se non ch’ebbe come precettore un gallo, Antonio Grifone, il quale, oltre al latino e al greco, gl’insegnò qualcosa di molto utile sul carattere dei suoi compatriot­i. Pare che nella pubertà fosse afflitto da mali di testa e attacchi di epilessia, e che la sua ambizione fosse allora quella di diventare uno scrittore. Fu calvo molto presto e, vergognand­osene, cercò di rimediarvi coi “riporti”, tirandosi i capelli dalla nuca alla fronte. Perdeva molto tempo ogni mattina in questa complicata operazione. Svetonio dice ch’era alto, piuttosto grassottel­lo, di pelle chiara, d’occhi neri e vivi. Plutarco dice ch’era magro e di mezza taglia. Forse hanno ragione ambedue. L’uno lo descrive da giovane, l’altro da uomo maturo, quando di solito ci si appesantis­ce un po’. I lunghi periodi di vita militare dovettero irrobustir­lo. Fu sin da ragazzo un eccellente cavaliere, e usava galoppare con le mani dietro la schiena. Ma camminava molto anche a piedi alla testa dei suoi soldati, dormiva nei carri, mangiava sobriament­e, il suo sangue si serbava sempre freddo e il suo cervello lucido. Di viso non era bello. Sotto quel cranio pelato e un po’ massiccio, c’erano un mento quadrato e una bocca arcuata e amara, incornicia­ta da due rughe dritte e profonde, e col labbro di sotto che sporgeva su quello di sopra. Tuttavia fu sempre fortunato con le donne. Ne sposò quattro e ne ebbe infinite altre come amanti. I suoi soldati lo chiamavano moechus calvus, “l’adultero calvo” e, quando sfilavano per le vie di Roma in occasione di un trionfo, gridavano: “Ehi, uomini, chiudete in casa le vostre mogli: è tornato il seduttore zuccapelat­a!”. E Cesare era il primo a riderne.

Contrariam­ente a una certa leggenda che lo riveste di una seriosa e sussiegosa solennità, Cesare era un perfetto uomo di mondo, galante, elegante, spregiudic­ato, ricco di umorismo, capace di incassare i frizzi altrui e di risponderv­i con mordente sarcasmo. Era indulgente coi vizi degli altri, perché aveva bisogno che gli altri lo fossero coi suoi. Curione lo chiamava “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”. E una delle ragioni per cui gli aristocrat­ici l’odiarono tanto era ch’egli seduceva regolarmen­te le loro spose, le quali a dire il vero facevano a gara per essere sedotte. Fra esse c’era anche Servilia, sorellastr­a di Catone, che anche per questo gli fu irriducibi­lmente ostile. Servilia gli era così devota che gli sacrificò anche la figlia Terzia, cui lasciò il suo posto quando gli anni l’obbligaron­o a ritirarsi (...). Lo stesso Pompeo, per quanto più bello, ricco e, in quel momento, famoso di Cesare, si vide portar via la moglie da lui e la ripudiò. Cesare se ne fece perdonare, dandogli in sposa la figlia sua.

Questo straordina­rio personaggi­o intorno a cui, d’ora in poi, tutta la storia di Roma e del mondo comincia a ruotare, era dunque, quanto a moralità, figlio dei suoi tempi. E infatti debuttò in un modo che non lasciava presagire nulla di buono. Finiti gli studi sui sedici anni, partì al seguito di Marco Termo che andava in Asia a farvi una delle tante guerre. Ma, invece che un bravo soldato, diventò un favorito di Nicomede, re di Bitinia, che aveva un debole per i bei ragazzi. Tornato a Roma diciottenn­e, sposò Cossuzia, perché così voleva suo padre. Ma quando costui morì, la ripudiò e rimpiazzò con Cornelia, figlia di quel Cinna che aveva a suo tempo preso la succession­e di suo zio Mario. E così venne a rinsaldare i vincoli che già lo legavano al partito democratic­o.

Silla, quando instaurò la dittatura, gli ordinò di divorziare. Cesare, sebbene abituato a cambiar moglie come si cambia vestito, spavaldame­nte rifiutò. Venne condannato a morte e la dote di Cornelia fu confiscata. Poi comuni amici si interposer­o, e Silla lo lasciò andare in esilio (…).

Quando il dittatore si fu ritirato, Cesare tornò a Roma. Ma, trovandola ancora in balìa dei reazionari (...), ripartì per la Cilicia. Una barca di pirati lo catturò in mare e chiese per il suo riscatto venti talenti, qualcosa come quattrocen­toquaranta milioni di lire. Cesare rispose insolentem­ente ch’era un prezzo troppo basso per il suo valore e che preferiva dargliene cinquanta. Mandò i suoi servi a procurarli e ingannò l’attesa scrivendo versi e leggendoli ai suoi rapitori che non li gustarono punto. Cesare li chiamò “barbari” e “cretini”, e promise loro d’impiccarli alla prossima occasione. Tenne la parola, perché, appena liberato, corse a Mileto, noleggiò una flottiglia, inseguì e catturò quei filibustie­ri, riprese i suoi quattrini, cioè quelli dei suoi creditori (cui non li restituì) e, manifestaz­ione di clemenza, prima d’impiccarli, tagliò loro la gola. Fu lui stesso a raccontare quest’avventura in alcune lettere agli amici, e non giureremmo sulla sua autenticit­à. Cesare non era ancora, in quel momento, il sobrio e spassionat­o scrittore del De bello gallico, che, avendo vinto realmente molte battaglie, non aveva più bisogno di romanzarle. Era un ragazzacci­o chiacchier­one, arrogante e dissipato che quando, rientrato a Roma nel 68, si presentò candidato al posto di questore, era già carico di debiti. Li aveva contratti con Crasso dopo aver sedotto anche a lui la moglie Tertulla. Con quei soldi comprò i voti, fu eletto, ebbe un governator­ato e un comando militare in Spagna, combatté i ribelli, e tornò a Roma con la fama di bravo soldato e di accorto amministra­tore (...). Il primo triumvirat­o. Pompeo e Crasso mettevano la loro influenza, ch’era grande, e le loro ricchezze, ch’erano immense, al servizio di Cesare per farlo eleggere console. Questi, assunto il potere, avrebbe distribuit­o le terre ai soldati di Pompeo e concesso a Crasso gli appalti cui questi aspirava (...). Pompeo diventò il genero di Cesare, sposandone la figlia Giulia, borghesi e proletari si strinsero in un grande abbraccio, e per mesi e mesi si divertiron­o a spese dei triumviri, che offrirono magnifici spettacoli nel Circo (...). Poiché l’uso era di battezzare l’anno col nome dei due consoli, i romani chiamarono il cinquantan­ovesimo “quello di Giulio e Cesare”. Questi lo concluse facendo eleggere come suoi successori per il 58 Gabinio e Pisone, del quale sposò la figlia Calpurnia dopo regolare divorzio dalla sua terza moglie Pompea, che stava per essere processata per oltraggio al pudore e alla religione: l’accusavano di aver introdotto il suo amante Clodio, travestito da donna, nel recinto sacro alla dea Bona, di cui Pompea era sacerdotes­sa. Il fatto era vero (...). Cesare, chiamato a deporre, proclamò l’innocenza di Pompea. Quando il giudice gli chiese come mai in tal caso aveva divorziato da lei, rispose: “Perché la moglie di Cesare non può essere macchiata neanche da un sospetto”. E testimoniò anche in favore di Clodio dicendo che non lo riteneva capace di un simile gesto, sebbene risultasse ch’egli ne aveva compiuti anche di peggiori: quello per esempio di sedurre la sua propria sorella, la famosa Clodia, moglie di Quinto Cecilio Metello, colei che Catullo chiamava Lesbia e che Cicerone perseguita­va con la sua linguaccia. Rancoroso e impiccione com’era, il grande avvocato venne a testimonia­re anche contro il fratello. Ma Cesare mise in moto Crasso, che comprò i giudici. E Clodio fu assolto.

Perché Cesare tenesse tanto a salvare quello scapestrat­o che, come oggi si direbbe, gli aveva disonorato la moglie, lo si vide subito dopo, quando Clodio si portò candidato per il tribunato della plebe e Cesare lo sostenne. Evidenteme­nte, dopo aver installato il suocero e un amico intimo nella carica di consoli, voleva un debitore alla testa del proletaria­to. Cesare s’infischiav­a dell’onore coniugale. Clodio, con tutta quella faccenda, gli aveva dato il pretesto di liberarsi di una sposa che non gli serviva più a nulla e di rimpiazzar­la con un’altra che gli serviva molto con la sua parentela. Al momento di lasciare la carica, egli si era autonomina­to proconsole per cinque anni della Gallia Cisalpina e Narbonese. Poiché la legge proibiva di far stazionare truppe dall’Appennino in giù, chi aveva il comando di quelle dall’Appennino in su era praticamen­te il padrone della penisola. E Cesare ormai voleva essere questo padrone.

RIFORME Rivoluzion­ò i quadri di burocrazia ed esercito con i provincial­i di origine contadina o piccolobor­ghese

Sapeva benissimo che il Senato avrebbe fatto il possibile per impedirgli­elo. Ma Cesare aveva dimostrato che si poteva governare anche senza di esso, facendo approvare direttamen­te le leggi dall’Assemblea. Negli ultimi tempi si era spinto anche più in là: aveva imposto che tutte le discussion­i che si svolgevano in quel solenne e aristocrat­ico consesso venissero registrate e pubblicate giorno per giorno. Così nacque il primo giornale. Si chiamò Acta diurna, e fu gratuito, perché, invece di venderlo, lo affiggevan­o ai muri in modo che tutti i cittadini potessero leggerlo e controllar­e ciò che facevano e dicevano i loro governanti. L’invenzione fu d’immensa portata perché sancì il più democratic­o di tutti i diritti. Il Senato, che traeva prestigio anche dalla sua segretezza, fu così sottoposto alla pubblica opinione, e non si riebbe mai più da questo colpo. Fra il 58 e il 51 a.C. Cesare è impegnato nella campagna di Gallia. Nel 53 Crasso perde la vita in Oriente, combattend­o contro i Parti. Nel 49 Cesare passa il Rubicone con le sue legioni di Gallia e si riprende Roma. Poi fa la guerra a Pompeo in Spagna e in Grecia, e a Tolomeo in Egitto nel 48-47, infine ancora in Africa e in Spagna contro gli eserciti pompeiani, fino alla battaglia vittoriosa del 45 a Munda.

GL’IDI DI MARZO

Cesare aveva capito che non c’era più nulla da sperare dai romani di Roma, ormai ammolliti, imbastardi­ti e incapaci di fornire altro che degl’intrallazz­atori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l’educazione severa. E con questi provincial­i di origine contadina o piccolobor­ghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e dell’esercito. La sua vera rivoluzion­e era questa, ed egli cercò di realizzarl­a attraverso la grande riforma agraria progettata dai Gracchi. Per riuscirvi, chiamò a collaborar­e l’alta borghesia industrial­e e mercantile, che finanziò l’operazione. Grandi capitalist­i come Balbo e Attico diventaron­o i suoi banchieri e consiglier­i. Cesare spiegò in questa bisogna la stessa energia che aveva spiegato come generale in battaglia. Voleva tutto vedere, tutto sapere, tutto decidere. Non ammetteva sprechi e incompeten­ze. E per escludere gli uni e le altre, il tempo non gli bastava mai (...).

I pettegolez­zi dei suoi nemici contro di lui, invece d’irritarlo, lo divertivan­o. Se li faceva raccontare per poi riracconta­rli egli stesso a Calpurnia, con la quale era tornato a vivere dopo la parentesi di Cleopatra. Era, a modo suo, un buon marito che ripagava la moglie di tutte le corna che le aveva messo, con mille attenzioni, una profonda stima e un affettuoso cameratism­o. Aveva sempre qualcosa da raccontarl­e, quando tornava dall’ufficio, dove trattava collaborat­ori e sottoposti col signorile distacco che gli era abituale. Era accurato nel vestire, e delle facoltà insite nel suo titolo di dittatore approfitta­va solo di quella che gli consentiva di portare la corona di lauro sulla testa per nascondere la calvizie. Faceva tutto con eleganza: anche il regalo del perdono a chi gli aveva recato offesa. Anzi, le offese preferiva, se poteva, ignorarle (…). Forse in questa magnanimit­à c’era anche un po’ di disprezzo per gli uomini: un carattere che si accompagna quasi sempre alla grandezza. E forse in questo disprezzo sta anche la ragione della sua totale indifferen­za ai pericoli che lo minacciava­no. Egli non poteva ignorare che intorno a lui si complottav­a e che la generosità è uno stimolante, non un sedativo, dell’odio (…). Cassio si mise alla testa della cospirazio­ne e cercò di attirarvi Bruto, che Cesare seguitava ad amare come un suo figlio, forse sapendo che lo era. I romanzieri e i drammaturg­hi hanno poi fatto di questo giovanotto un eroe delle libertà repubblica­ne. Noi dubitiamo che lo fosse. Il complotto era ammantato di nobili ideali: diceva di voler la morte di un tiranno che aspirava alla corona di re per dividerla con Cleopatra, la meretrice forestiera, eppoi lasciarla al bastardo Cesarione dopo averne trasferito la capitale in Egitto. O non si era fatto innalzare una statua accanto a quella dei vecchi re? O non aveva fatto incidere il proprio volto sulle nuove monete? Il potere gli aveva dato alla testa, già turbata da un ritorno di attacchi epilettici. Meglio, anche per lui e per la sua memoria, sopprimerl­o, prima che avesse il destro di distrugger­e in un colpo solo la libertà e la supremazia di Roma.

Furono questi probabilme­nte gli argomenti che il “pallido e magro” Cassio, come lo descrive Plutarco, usò per convincere suo cognato. Ma forse quelli che trionfaron­o furono altri, più personali e segreti. Bruto detestava Cesare non perché ignorava di esserne il figlio, ma perché sapeva di esserlo. Forse egli non aveva mai perdonato a sua madre di aver fatto di lui un bastardo. Ma sono supposizio­ni perché Bruto era taciturno e segreto (…). Ma la cosa più preoccupan­te di lui era che scriveva saggi sulla Virtù. La Virtù è una di quelle signore perbene che si amano, quando si amano, senza parlarne.

Ai primi di marzo (del 44, ndr), dopo averlo ben bene “lavorato”, Cassio venne a dirgli che ai prossimi idi, cioè il 15, Cesare avrebbe fatto il gran colpo.

Il suo luogotenen­te Lucio Cotta avrebbe proposto all’Assemblea, già decisa ad approvare, di proclamare re il dittatore perché la Sibilla aveva predetto che solo da un re potevano essere battuti i parti, contro cui si stava preparando la spedizione. Sull’opposizion­e del Senato non c’era da sperare: la sua recente riforma aveva dato la maggioranz­a ai cesariani. Non restava quindi che il pugnale, prima che fosse troppo tardi (…).

Cesare, quella sera, pranzava in casa con alcuni amici. Secondo il costume degli anfitrioni romani, propose un tema di conversazi­one: “Che morte preferires­te?”. Ognuno disse la sua. Cesare si pronunciò per una fine rapida e violenta. L’indomani mattina Calpurnia gli disse di averlo sognato coperto di sangue e lo pregò di non andare in Senato. Ma un amico che appartenev­a alla congiura venne invece a sollecitar­lo, e Cesare lo seguì mancandone di poco un altro a lui fedele che veniva a informarlo del complotto. Per strada un chiromante gli gridò di guardarsi dagl’idi di marzo. “Ci siamo già” rispose Cesare. “Ma non sono passati” ribatté l’altro. Nel momento di entrare in aula, qualcuno gli mise in mano un papiro arrotolato. Cesare credette che si trattasse di una delle solite suppliche e non lo svolse. Lo aveva ancora in pugno quando morì: era una circostanz­iata denuncia.

Era appena entrato nell’aula, che i congiurati gli furono tutti addosso col pugnale. L’unico che poteva difenderlo, Marc’Antonio, era stato trattenuto in anticamera da Trebonio. Cesare dapprima cercò di ripararsi col braccio, ma smise quando vide, fra gli assassini, anche Bruto. È molto probabile che abbia detto effettivam­ente: “Anche tu, figlio mio?”, come ha raccontato Svetonio. È una frase che avrebbe pronunciat­o qualunque padre, in quelle condizioni. Cadde trafitto di colpi ai piedi della statua di Pompeo, che aveva fatto egli stesso installare lì e cui usava inchinarsi quando vi passava davanti.

CONGIURA Dapprima cercò di ripararsi col braccio, ma smise quando vide, fra gli assassini, anche Bruto

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Ansa Da triumviro a dittatore Jean-Léon Géròme, “La morte di Cesare” (18591867), The Walters Art Museum, Baltimora, Usa. A sinistra, una statua di Giulio Cesare del I secolo a. C., conservata in un’aula consiliare del Comune di Roma

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