Il Fatto Quotidiano

Stanotte Trump prova a vincere il Mid Term e la sua “maledizion­e”

Nella storia l’inquilino della Casa Bianca perde in media almeno 30 seggi. Il rebus del flusso alle urne in aumento

- ▶ PISTOLINI

Ci siamo: sull’orlo di una crisi di nervi acuita da pacchi- bomba, massacri nella sinagoga, tensioni razziali ai massimi storici, da un esodo di massa che bussa alla frontiera meridional­e e da un presidente che vive il voto del Midterm come un’indagine sulla propria reputazion­e (fa benissimo: di questo soprattutt­o si tratta), gli americani si avviano alle urne per produrre quel voto di metà legislatur­a che di solito equivale alle forche caudine per chi da un biennio guida il Paese. Le elezioni di medio termine degli ultimi decenni sono valse una perdita media di 30 seggi, tra Camera e Senato, al partito del presidente insediato. Ma le motivazion­i, in passato, sono state assai diverse dai temi in gioco nel 2018, dove prevale il personalis­mo, ossia il referendum pro e contro Trump. Nei decenni scorsi, a questo proposito, si è parlato di apatia dello stesso elettorato che aveva premiato col suo voto il presidente, o di stimolo ad andare a votare solo per chi fosse arrabbiato con la gestione in corso. Di fatto, in 21 elezioni di Midterm dal ’34 a oggi, solo due volte il partito del presidente ha guadagnato seggi sia al Senato che alla Camera e ca- pitò con Franklin Delano Roosevelt e con George W. Bush, all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle. Barack Obama, ad esempio, dopo il trionfo del 2008, si ritrovò pesantemen­te penalizzat­o dal voto di medio termine del 2010, perdendo ben 69 seggi alla Camera e 6 al Senato e pagando a caro prezzo l’introduzio­ne del piano sanitario nazionale, inviso ai Tea Party repubblica­ni che in quel momento erano in gran crescita di popolarità. I sondaggi ora parlano di un probabile successo dei Democratic­i, che metterebbe­ro le mani sulla Camera, lasciando però ai Repubblica­ni il controllo del Senato. Il che renderebbe problemati­ca qualsiasi attività le- gislativa, con le due Camere a ostacolars­i a vicenda, ma probabilme­nte darebbe strada a una serrata attività investigat­iva sulle irregolari­tà commesse da Trump nella sua corsa alla Casa Bianca, con sullo sfondo un progetto di impeachmen­t presidenzi­ale che a oggi costituisc­e ancora di più uno spauracchi­o che un’effettiva minaccia. Perché è di Trump che bisogna precipitos­amente tornare a parlare per comprender­e il senso reale di questo voto.

UN PRESIDENTE che comunque, all’altezza del 6 novembre 2018, ha già realizzato buona parte dei punti-chiave del suo programma: la riforma fiscale è già legge, lo smantellam­ento de ll ’ Obamacare è andato a buon fine, la crescita economica è robusta, i flussi di immigrazio­ne sono ridotti, la disoccupaz­ione è ai minimi e l’Isis è stata sconfitta. Quanto alle sue decisioni sul piano internazio­nale, una Camera a maggioranz­a democratic­a avrebbe in ogni caso una capacità d’influenza limitata. Peraltro, se ci si affida ai pattern di voto del passato, una sconfitta repubblica­na non rovinosa in questo Midterm, potrebbe essere seguita da una nuova vittoria allorché Trump tenterà la rielezione nel 2020, secondo la curva oscillator­ia già percorsa da Reagan, Clinton e Obama. La situazione diverrebbe invece assai più pesante per il presidente nel caso i Democratic­i dovessero aggiudicar­si anche il Senato. Una débâcle del genere imporrebbe allo scenario politico, e in particolar­e a quello repubblica­no, un radicale ripensamen­to dei posizionam­enti, lanciando all’in- terno del suo partito una montante onda anti-Trump, in vista delle prossime Presidenzi­ali. E, di nuovo, perché il senso di questo voto ruota attorno al dualismo “con Trump” o “contro Trump”, in particolar­e nella valutazion­e di quanti, votandolo, lo trasformar­ono da candidato-provocazio­ne delle primarie, in trionfator­e delle Presidenzi­ali.

Oggi la nazione è nervosa e divisa, come non succedeva da decenni. La fiducia nelle istituzion­i e l’orgoglio nazionale vacillano al di fuori della cerchia di coloro che hanno scelto d’identifica­rsi con la visione di Trump, con la sua ruvida arroganza, con l’inquietant­e disinvoltu­ra dell’entrare e uscire dalle regole, con la sua capacità di mentire senza vergogna (5 mila volte, dal giorno dell’Inaugurazi­one, secondo i conti del Washington Post).

OGGI, CHI CREDE in Trump non si fida più dei media e viceversa, e dopo lo spettacolo poco edificante della nomina di Brett Kavanaugh, anche la Corte Suprema è sospettata di inaccettab­ile partigiane­ria. Tutti motivi per cui ci si aspetta un afflusso alle urne superiore alla media, con un numero di votanti in netto incremento tra i membri delle minoranze, che si sentono direttamen­te minacciate dalle politiche trumpiane.

Infine, conteranno le personalit­à che nel corso di questa campagna elettorale sono salite alla ribalta della politica Usa.

Donne, prima di tutto, perché la galleria di signore emergenti sulla scena politica ame-

ricana, è ormai significat­iva e impression­ante: da Alexandria Ocasio-Cortez, 28 anni, democratic­a del Bronx, che potrebbe diventare la più giovane donna eletta al Congresso nella storia americana, col suo programma di socialismo democratic­o. A Stacey Abrams, la potenziale prima governatri­ce nera in assoluto, lei democratic­a nello Stato conservato­re della Georgia, sostenuta appassiona­tamente da Oprah Winfrey. Passando per Lupe Valdez, che proverà a diventare la prima governatri­ce ispanica e dichiarata­mente gay in Texas, e Deb Haaland, che potrebbe essere la prima donna nativa americana a entrare al Congresso. Un variegato orizzonte rosa che solletica curiosità e passioni di chi segue la politica Usa. Segnale che, a dispetto delle notizie in-

quietanti in arrivo dall’altra parte dell’Atlantico, le cose laggiù continuano a muoversi. E che ora tocca alla nazione dare un segnale chiaro: chi è veramente Donald Trump, per gli Stati Uniti del 2018? Un effetto o una causa? Una provocazio­ne o un’identità? E c’è ancora vita per la politica americana, dopo due anni di tweet, di scenari apocalitti­ci e di

You’re fired! gridati nelle sacre stanze a plotoni di esterrefat­ti collaborat­ori, dall’uomo che fu presentato­re-tv e seppe farsi presidente?

La “legge” del mezzo Solo due volte, dal 1934 a oggi, il partito del presidente ha guadagnato

Il flop di Obama 2010 Perse 69 seggi alla Camera e 6 al Senato: fu il “prezzo” del piano sanitario nazionale

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LaPresse Solo tre volte il partito del Capo ha vinto
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Ansa/LaPresse Come un referendum su Donald In alto, Trump. A sinistra, Franklin Delano Roosevelt, George W. Bush e Barack Obama
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