“Io so tutto”: la famiglia Orlandi e la giungla delle (false) piste
Moltissime, ormai, le presunte testimonianze. I legali si affidano alla “macchina della verità”
Il ritrovamento di ossa sotto un pavimento della Nunziatura Apostolica, nella centralissima via Po a Roma, ha riacceso una speranza. E le due famiglie – di Emanuela Orlandi, e forse ancor più quella di Mirella Gregori – pensano di poter avere quello che cercano da 35 anni: una tomba su cui piangere.
La famiglia Orlandi non ha mai avuto pace. Investigazioni private, attese davanti ai portoni oltretevere, corse in Procura. L’ultima ieri, dopo che il fratello di Emanuela, Pietro, era già andato dal procuratore aggiunto Francesco Caporale, il giorno dopo il ritrovamento delle ossa.
La Procura non ha accettato che fosse depositata la nomina dei legali Annamaria Bernardini de Pace e Laura Sgrò: farlo avrebbe significato bollare il ritrovamento delle ossa come l’ennesimo mistero Orlandi. E gli investigatori sono molto cauti: vogliono esser certi – solo dopo il rilevamento del Dna – che quei resti siano di Emanuela, prima di far entrare la famiglia nell’ennesimo procedimento.
La “scomparsa” di don Vergari
Un anno e mezzo fa, per la prima volta, gli avvocati hanno depositato una denuncia di scomparsa in Vaticano. Non era mai stato fatto dal 22 giugno 1983, quando di Emanuela – figlia 15enne di un messo della Prefettura della casa pontificia e quindi cittadina del Vaticano – si persero le tracce. Sono seguiti trent’anni di depistaggi, carte false, svariate piste inve- stigative, comprese quelle della pedofilia, complotti internazionali e locali, all’ombra della Banda della Magliana. Ma nulla di concreto è emerso. Dopo la più recente denuncia, non è arrivata alcuna risposta dal Vaticano. Nel frattempo, sono state condotte testarde indagini difensive. Come quando i legali hanno cercato in lungo e in largo Pietro Vergari, 79 anni, ex rettore di Sant’Apollinare, la chiesa dove è stato sepolto il boss della Banda della Magliana, Enrico De Pedis. Don Vergari è l’unico eccle- siastico finito sotto indagine, anni fa, con altri cinque, per il duplice sequestro di persona di Emanuela e Mirella. La sua posizione è stata archiviata, prima dal pm, poi dal giudice e anche in Cassazione. Le ultime notizie del prelato si hanno in un palazzetto di Turania, tra Rieti e L’Aquila, dove i legali della famiglia Orlandi pure sono andati. Sembra sparito nel nulla.
Ma le piste investigative, tante, sono state battute tutte. Anche quelle partite dalle segnalazioni dei detenuti che, dai vari penitenziari d’Italia, negli anni hanno chiamato gli avvocati della famiglia Orlandi col loro pezzo di verità. C’è chi per esempio ha raccontato, senza alcun riscontro, che il corpo di Emanuela fosse sepolto nell’Aspromonte.
GUGLIELMO GULLOTTA
Ci sono persone che si autoingannano e credono alle menzogne che raccontano prima di tutto a loro stessi. Ma è con i fatti esterni che si può svelare la verità
Da nord a Sud la gara delle segnalazioni
Ma le versioni e le presunte testimonianze sono diventate davvero molte. È così che i legali hanno deciso di affidarsi, per districarsi tra i vari verbali e per poter appurare l’eventuale veridicità delle indicazioni contenute, anche a una psicologa. L’obiettivo è capire se e chi mente.
Il principio è, per semplificare, quello della “macchina della verità”. Dalle sole parole, peraltro scritte, però è difficile scoprire il bugiardo. Il testimone o l’indagato bisogna guardarlo in faccia.
“Lie to me”. A caccia delle menzogne
Lo sa bene il professor Guglielmo Gulotta, uno dei padri della psicologia giuridica, autore – tra le altre cose – del fondamentale Psicologia della testimonianza e prova testimoniale (Giuffrè, 1986). Professore all’Università di Torino, Gulotta è stato per anni anche perito del Tribunale di Milano. E spiega: “Non bisogna fidarsi delle impressioni. La scoperta della verità è una triangolazione di tre elementi: le parole, i fattori esterni e la mimica”. Per discernere tra verità e menzogna, spiega il professore, leggere – in questo caso parliamo di verbali di interrogatorio – non basta. “Si devono esaminare anche le microimpressioni, magari osservandole in un video, con immagini che scorrono al rallentatore”. Solo così si possono carpire le minime sfumature di una menzogna. Modello, per gli appassionati del genere serie- tv, Lie to me, per intenderci.
“Ci sono persone che si autoingannano – c ont in ua Gulotta – e credono alle menzogne che raccontano prima di tutto a loro stessi. Ma è con i fatti esterni che si può svelare la verità. Una persona può essere sincera, e dire una cosa falsa. Solo triangolando parole, comportamento non verbale e riscontri esterni possiamo dunque stabilire ciò che può essere vero. Dalla semplice lettura dei verbali si possono riscontrare al massimo delle contraddizioni”.
La teoria, il professor Gulotta, l’ha applicata nelle aule di Tribunale. Seguiva ad esempio una vicenda che nei primi anni 90 sconvolse Foligno. Un bimbo fu ucciso nel 1993 e un uomo si autoaccusò di quel terribile delitto. Fu Gulotta a scoprire che mentiva: “L’ho capito ascoltando il suo racconto: aveva letto tutto sui giornali. Il suo autoaccusarsi era una sorta di punizione. Anche in questo caso, alle sue parole è seguita una comparazione con i dati esterni”. Per esempio? “Lui ha raccontato di avere bruciato il collo del bambino col mozzicone di una sigaretta. Non gli credevo e ho fatto controllare. Quella bruciatura era un’altra bugia”.
Stavolta la risposta sarà affidata prima di tutto agli accertamenti della Scientifica sulle ossa trovate alla Nunziatura. Dal risultato delle due l’una: o si chiuderà un caso italiano consegnando a una (o a entrambe) delle famiglie un corpo sul quale piangere, oppure per i familiari si spegnerà l’ennesima speranza, dopo l’enne simo dolore.
PSICOLOGIA FORENSE
Una persona può essere sincera e dire una cosa falsa. Solo triangolando tra parole e comportamento non verbale lo possiamo capire