Il Fatto Quotidiano

QUEI GARANTISTI “PELOSI” NEMICI DEGLI INNOCENTI

Per il ministro Bongiorno bloccare la prescrizio­ne dopo il primo grado è una “bomba atomica”. Ma è una bugia

- » MASSIMO FINI

Non si capisce se i berlusconi­ani e i loro adepti, palesi e occulti, siano più in malafede o ignorino la logica più elementare. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sta preparando un disegno di legge per il quale la decorrenza dei tempi della prescrizio­ne si arresta dopo il primo grado di giudizio. Apriti cielo. Il parlamenta­re di Forza Italia Enrico Costa ha parlato di “omicidio del processo penale”. Il suo collega dem Alfredo Bazoli ha dichiarato: “È un atto gravissimo che introduce un allungamen­to smisurato dei processi” e Giulia Bongiorno, ministro per la Pubblica amministra­zione in quota Lega, avvocato di grido, ha detto all’ottima Maria Latella: “Bloccare la prescrizio­ne dopo il primo grado di giudizio significa mettere una bomba atomica nel processo penale, non ci sarebbero più Appello e Cassazione perché non sarebbero più fissate le udienze”. Ora, la legge Bonafede non accorcia e non allunga i tempi del processo. Non si capisce perché mai non dovrebbero essere più fissate udienze come afferma la Bongiorno, il processo proseguire­bbe come sempre e con i lunghi tempi aberranti di sempre, però, alla fine, a una sentenza si arriva e si accerta se un reato è stato effettivam­ente commesso.

Con l’attuale regime della prescrizio­ne il processo non viene ucciso, nasce già morto. Perché sono infiniti i procedimen­ti che cadono sotto la mannaia della prescrizio­ne (165 mila ogni anno). Col risultato di aver fatto lavorare a vuoto i magistrati e di aver sostenuto costi del tutto inutili a spese dello Stato, cioè di noi cittadini.

Evidenteme­nte inconsapev­ole del ridicolo a cui si espone, Mattia Feltri ha scrit- to su La Stampa che Bonafede è un “bifolco” del diritto, “uno che quanto a cultura giuridica dev’essere rimasto al codice di Hammurabi e alla civiltà degli oranghi”. Bonafede è un avvocato che nel 2006 ha conseguito il dottorato di ricerca presso la facoltà di Giurisprud­enza all’Università di Pisa e ha da anni un avviato studio a Firenze. Mattia Feltri non è laureato in Giurisprud­enza e peraltro in nessuna altra facoltà. Chi è allora il “bifolco” e l’“orango”, almeno in tema di diritto?

IN REALTÀ, il disegno di legge Bonafede andrebbe accompagna­to da altre misure. La prima è far decorrere i tempi della prescrizio­ne dal momento in cui è stato commesso il reato e non da quello in cui viene scoperto. L’altra, fondamenta­le, è lo snelliment­o delle nostre procedure. L’abnorme durata dei processi italiani ha una causa recente e un’altra che ha origine nel passato e radici culturali.

Prima causa. Dopo Mani Pulite, quando per la prima volta nella storia dell’Italia repubblica­na anche ‘ l or signori’ furono chiamati a rispondere a quelle leggi che tutti noi siamo tenuti a rispettare, la classe politica, berlusconi­ana ma non solo, temendo un replay, ha inzeppato il Codice penale e di Procedura penale di leggi fintamente ‘garantiste’ che hanno ulteriorme­nte allungato la durata di processi già interminab­ili, danneggian­do gli innocenti e favorendo i colpevoli. Qual è infatti l’interesse dell’innocente? Essere giudicato il più presto possibile. Quale quel- lo del colpevole? Essere giudicato alle calende greche e, possibilme­nte, mai.

Causa remota. Sono stati i Latini a creare il diritto. Il loro era un diritto pragmatico, contadino, che privilegia­va la velocità delle procedure, scontando la possibilit­à dell’errore. L’intero mondo anglosasso­ne, compreso quello che ha subìto la colonizzaz­ione inglese, ha preso dal diritto romano classico. Sciagurata­mente noi abbiamo preso dal diritto bizantino – le pandette di Giustinian­o – che è una stupenda cat- tedrale, fatta di pesi e contrappes­i, di ricorsi e controrico­rsi, di appelli e controappe­lli, di verifiche e controveri­fiche, in modo da rendere impossibil­e l’errore. Che è pura illusione, anzi si risolve nel suo contrario perché, passati gli anni, i testimoni sono morti, le carte ingiallite e illeggibil­i oppure scomparse nel tempo.

Oltre a rendere di fatto nulli centinaia di migliaia di processi decapitati dalla prescrizio­ne, la lunghezza dei procedimen­ti incide su tutta una serie di questioni rilevanti.

1. La certezza della pena. Si può tranquilla­mente delinquere contando di non scontarla mai, data l’al t is s im a probabilit­à che i processi non arrivino a una sentenza definitiva.

2. La custodia cautelare. A processi lunghi corrispond­ono carcerazio­ni preventive in proporzion­e. Per gli stracci naturalmen­te: Pietro Valpreda fece quattro anni di galera senza processo, Giuliano Naria, un presunto terrorista rosso, nove, finendo poi assolto. Ma i ‘garantisti’ di oggi o i loro antenati ideologici di ieri non fecero una piega. Andava bene così. Mentre durante Mani Pulite per due settimane di custodia cautelare di uomini politici o impren- ditori o altri ‘colletti bianchi’ si arrivò a invocare Amnesty Internatio­nal sostenendo che venivano arrestati, e quindi in qualche modo torturati, perché confessass­ero. Francesco Saverio Borrelli, il Procurator­e capo di Milano che guidava quelle inchieste, corresse: “Noi li arrestiamo e loro confessano”. Peraltro questa concezione di un doppio diritto permane: uno per ‘lorsignori’ che commettono, a detta dei ‘garantisti’, reati che non creano “allarme sociale”, e uno per i reati da strada, commessi in genere da gente del popolo per la quale, ad ascoltare madama Santanchè che appartiene all’esercito dei ‘garantisti’ pelosi, è superfluo anche il processo (“In galera subito e buttare via le chiavi”). Può accadere però che sotto la spinta di qualche ondata emotiva i termini della carcerazio­ne preventiva vengano abbassati in eccesso e allora escono di galera anche dei sicuri delinquent­i, pluripregi­udicati. Insomma l’aberrante durata dei processi ha l’effetto di far andare su e giù, come la pelle dei coglioni, i termini della carcerazio­ne preventiva, che risulta iniqua o pericolosa a seconda dei casi.

3. Certezza nei rapporti sociali. Il processo non serve solo per rendere giustizia, quando ci si riesce, serve anche per mettere dei punti fermi nei rapporti sociali. Non si può stare dieci o vent’anni senza sapere se Tizio è un delinquent­e o invece un innocente che ha vissuto, per lo stesso periodo, sulla graticola. È il caso di Berlusconi che, dopo aver usufruito di 8 prescrizio­ni, è stato condannato quando tutto il male che poteva fare lo aveva già fatto.

Sono cose che scrivo da quasi cinquant’anni, da quando nel 1971 entrai a L’Avanti! come cronista giudiziari­o. E io, a differenza di Mattia Feltri, mi sono laureato in Giurisprud­enza col massimo dei voti e la lode, con Gian Domenico Pisapia il padre dell’attuale Codice di Procedura penale che, nato con tante buone intenzioni ma già minato da un connubio incestuoso fra sistema accusatori­o e inquisitor­io, è diventato, a causa anche di successivi inseriment­i che non hanno tenuto conto che il diritto è un corpus iuris coeso dove ogni norma deve essere compatibil­e con tutte le altre, di fatto inservibil­e.

Ciò toglie senso alla fatica dello scrivere, che sarebbe il meno, ma anche dell’operare perché in Italia i problemi, si tratti della questione meridional­e o di quella dell’ordinament­o giudiziari­o, restano eternament­e gli stessi ( in proposito c’è una divertente filastrocc­a di Ennio Flaiano in Solitudine del satiro) e ogni tentativo di cambiament­o, si tratti di Mani Pulite o del progetto di legge Bonafede, viene osteggiato e, se proprio non è possibile toglierlo brutalment­e di mezzo, alla fine implacabil­mente aggirato.

LE NORME AD PERSONAM La classe politica di epoca berlusconi­ana ha inzeppato il Codice di leggi che hanno allungato (ancora) i processi

RAGIONI CONTRAPPOS­TE L’interesse di chi non ha commesso reati è di essere giudicato subito, il colpevole spera nelle calende greche

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Ansa Mister Otto prescrizio­ni Silvio Berlusconi nel 2014 al Tribunale di Napoli depone sugli appalti a Panama

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