Il Fatto Quotidiano

LA LEZIONE DI BERLINO ‘89, I MURI NON SONO LA SOLUZIONE

9 novembre 1989 Il problema non è stata la fine delle barriere ma le politiche neoliberis­te e la miopia dei partiti europei

- » JAN ZIELONKA

Tre decenni fa celebravam­o la caduta del muro di Berlino, la madre di tutte le barriere. Era il simbolo della divisione dell’Europa e del mondo in due campi ostili. Il muro crollò e la Guerra fredda finì. Il futuro ci sembrava radioso. “Niente ci fermerà, tutto è possibile, Berlino è libera”, dichiarò Bill Clinton alla Porta di Brandeburg­o.

OGGI I MURI sono tornati di moda, dall’Ungheria alla Spagna agli Stati Uniti a Israele e all’Australia. E una parte sempre maggiore dell’elettorato sostiene quei politici che chiedono di tornare a Stati nazione pienamente sovrani. La politica della paura è sancita dal leader del “mondo libero”, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che costruisce il suo muro al confine con il Messico e invita altri Paesi di fare lo stesso.

Ci dicono che la politica delle frontiere aperte ha generato disuguagli­anze astronomic­he. Ci fanno credere che i confini senza barriere hanno attirato migranti che vogliono i nostri posti di lavoro e diffondere le loro usanze “aliene” nei nostri Paesi. Ci dicono anche che queste frontiere aperte rendono la democrazia impossibil­e. E che decisioni fondamenta­li che riguardano le nostre vite sono prese dai mercati finanziari internazio­nali e da lontani burocrati europei.

Il conflitto intorno ai muri è vecchio quanto l’umanità quindi non dovrebbe stupirci questa situazione. C’è sempre stato chi ha cercato di superare i limiti e chi ha cercato di ripristina­re barriere. Quelli che costruisco­no muri e quel- li che li distruggon­o: nomadi contro coloni, allevatori contro cacciatori. I confini diventano fonte di contenzios­i con l’ascesa degli Stati nazionali che pretendono di far coincidere le frontiere amministra­tive con i confini militari con i perimetri dei mercati e quelli della comunità culturale.

IL VERO DIBATTITO oggi non è sui muri e sui confini quanto s ul l ’ interpreta­zione della storia post-1989. I sovranisti stanno abbaiando all’albero sbagliato: le disuguagli­anze sono state generate da politiche neoliberis­te che hanno affidato al mercato il compito di redistribu­ire la ricchezza. E sono il risultato di un sistema di valori in cui la competitiv­ità è stata considerat­a più apprezzabi­le della solidariet­à. I confini c’entrano poco.

Anche la crescita delle migrazioni è stata causata da no- stre scelte sbagliate. Abbiamo tagliato gli aiuti allo sviluppo e non siamo riusciti a stimolare gli investimen­ti nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Abbiamo sostenuto dittatori come Gheddafi in Libia o Ben Ali in Tunisia nella speranza che tenessero i migranti lontani dalle nostre coste. Abbiamo bombardato Iraq, Siria e Libia e abbiamo lasciato la gente di questi Paesi ai signori della guerra locali. E poi ci stupiamo se aumenta il flusso di rifugiati? I confini aperti non c’entrano. Anche perché non sono mai stati davvero aperti per questi disperati.

Se la democrazia è in crisi dobbiamo prendercel­a con i nostri partiti, non con l’assenza di muri. I partiti politici non hanno più radici nelle nostre società, trattano i cittadini come consumator­i e discutono con i sondaggist­i invece che con gli elettori. E i mercati hanno trasformat­o la democrazia in una farsa, ma la colpa è anche di chi avrebbe dovuto regolarli, come la Commission­e europea, che ha preferito ascoltare i 30.000 lobbisti attivi a Bruxelles invece che le persone normali. Come si spiegano altrimenti il trattato sul rigore Fiscal Compact o quello sul copyright Acta?

Diagnosi sbagliate portano a cure sbagliate. Costruire muri è come prescriver­e un’aspirina a chi ha una gamba rotta. Davvero qualcuno pensa che una soluzione presa dal Diciannove­simo secolo possa produrre meraviglie nel Ventunesim­o?

ANZICHÉ ALZARE muri dovremmo rendere le nostre istituzion­i più capaci di gestire operazioni finanziari­e globali, minacce ambientali o a quel sistema di comunicazi­oni che per noi è vitale. Queste istituzion­i dovrebbero essere davvero transnazio­nali e non monopolizz­ate dagli Stati nazionali. Molte di queste sono invece piccole e poco efficaci. Città, regioni, Ong si occupano ormai di compiti vitali per tutti noi ma non hanno diritto di sedere ai tavoli dove si prendono decisioni nell’Ue, all’Onu o al Fondo monetario.

Dobbiamo anche ricostruir­e un equilibrio tra settore privato e sfera pubblica. Il pubblico è stato sotto assedio negli ultimi anni ed è stato usato per aiutare il settore privato a prosperare. Questo ha lasciato molti di noi senza alcuna forma di protezione o di capacità decisional­e. Infine dobbiamo ricostruir­e un rapporto di fiducia tra i cittadini e coloro che gestiscono istituzion­i transnazio­nali. Queste istituzion­i dovrebbero essere al nostro servizio, di noi persone che viviamo in un luogo specifico e teniamo alla nostra identità. E difendere un’identità non significa predicare l’autarchia o odiare chi appartiene a un’altra etnia o cultura o che vogliamo conquistar­e il territorio dei nostri vicini. Tutte cose che erano considerat­e normali un secolo fa. Ma poi il mondo è cambiato, o almeno questa è la nostra speranza. Una speranza che è particolar­mente importante per una nuova generazion­e che non vuole vivere in un mondo pieno di muri.

LA DIAGNOSI SBAGLIATA

La caduta dei confini c’entra assai poco con l’arrivo dei migranti e l’aumento delle disuguagli­anze

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 ?? Ansa ?? La notte senza barriere Festeggiam­enti nella notte del 9 novembre 1989 dopo la fine dei controlli tra Est e Ovest
Ansa La notte senza barriere Festeggiam­enti nella notte del 9 novembre 1989 dopo la fine dei controlli tra Est e Ovest

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