I migranti nello stadio: “Il nostro sogno? Gli Usa”
La carovana dorme nell’impianto sportivo, alla ripresa del viaggio resta l’incubo dei trafficanti
“Èla quinta volta che tento di entrare negli Stati Uniti”, confessa José Wilmer, 30 anni, honduregno. “Un paio di mesi fa – continua – sono riuscito ad attraversare il deserto fino in Texas. Mi hanno arrestato e deportato. Ho perso i miei soldi e sono tornato al punto di partenza. Questa volta non ho pagato nessuno, forse mi andrà bene”.
José racconta le sue speranze sugli spalti dello stadio El Palillo Martinez, nel centro della Capitale messicana. I migranti, più di 7.000, sono arrivati a Città del Messico a ondate, in modo disordinato e rumoroso. Prima gli uomini, poi le famiglie, cariche di coperte e vestiti pesanti. La carovana ha scalato le colline del sud del Messico fino ai 2200 metri della megalopoli, casa di 20 milioni di persone.
L’odissea di due sorelle e una nonna
“Il viaggio è stato lungo – conferma Jennifer Yamileth Padilla Avila, 14 anni, honduregna – sono stanca, qui possiamo riposare qualche giorno”: è partita da casa con la sorella Katerine, 15 anni, e la nonna materna Maria
JUAN SALCEDO
Se ci offrono un lavoro qui possiamo fermarci: negli ultimi anni non ho avuto tante opportunità. Faccio il camionista, ma sono pronto a cambiare
ADALBERTO GONZALES
In tanti sono spariti tentando di arrivare a Tijuana: se cadi nelle mani dei ‘coyote’ chiedono un riscatto o ti asportano gli organi senza anestesia
Maura. La loro storia è scritta con gli stessi sogni e le frustrazioni che alimentano milioni di vite in Centro America. Corruzione dilagante, un tasso di disoccupazione altissimo. “Le ragazze hanno una forza incredibile – dice la nonna – abbiamo camminato per così tanti chilometri che non posso contarli. Siamo state chiuse per ore in furgoni e aggrappate a ri- morchi dei Tir. Sempre in pericolo, ma sempre parte di una comunità che ci protegg e va ”. Sanno che la loro marcia è ben lontana dal concludersi. “Andiamo negli Usa – racconta la sorella più grande – studieremo e i nostri genitori ci potranno raggiungere”.
Ogni anno, 200 mila migranti attraversano il Messico, un viaggio lungo tre volte l’Italia. Finora questo piccolo popolo si è sempre affidato ai coyotes, i trafficanti di persone. Costa due anni di salario minimo guatemalteco arrivare oltre il muro statunitense. La carovana ha scardinato il sistema migratorio, gestito dai cartelli della droga. Gli 8.000 in marcia sono passati da Veracruz, area sotto il controllo degli Zeta, senza pagare – così dicono – per farlo. “Abbiamo paura, in tanti sono spariti tentando di arrivare a Tijuana”. Viaggia solo Adalberto Gonzales, 23 anni e una laurea in Medicina in tasca. Come la maggioranza della carovana è honduregno.
“Se finisci nelle mani dei trafficanti nella migliore delle ipotesi chiedono un riscatto. Capita anche che ti asportino gli organi senza anestesia, per rivenderli al mercato nero”. Ma per Adalberto la paura è solo una delle componenti di questa traversata. Suo fratello vive in Texas da dieci anni. “È entrato illegalmente, ora è regolare. Sono sicuro di poter fare altrettanto. Mi hanno già messo in contatto con un trafficante, mi assicura che per 3 mila dollari mi porta dall’altra parte del confine”.
L’esercito degli accattoni
Fuori dallo stadio, decine di ragazzini hanno invaso le strade con il cappello in mano. Si posizionano sui dossi, accanto alle buche, dove le auto rallentano: “Regálame un peso (5 centesimi di euro)”. Dai finestrini sbucano mani con spiccioli, bibite, biscotti, vestiti. La popolazione sa del passaggio della carovana e ha predisposto infiniti atti di carità. “Oggi i miei figli hanno fatto quasi 500 pesos (20 euro) – Idania, nicaraguense, parla seduta sul materasso che è salotto, cucina e camera letto per quattro persone – ne abbiamo spesi 150 per mangiare, gli altri li mettiamo da parte”. Alexia, la figlia più piccola, ha lo sguardo vispo. Per lei il viaggio è un’avventura. La coda per il cibo diventa la possibilità di chiacchierare, la distribuzione dei vestiti invece una gara ad accaparrarsi quelli più sgargianti, chiedere l’elemosina una sfida con il fratello a chi raccoglie di più. “È passata un’auto – racconta la bambina – un signore mi ha mostrato un portafoglio pieno di soldi. Mi ha detto che si sarebbe fermato dietro l’angolo e che, se fossi andata lì, me li avrebbe dati tutti”. Idania la guarda, è pietrificata: di paura o forse di rabbia. “Non possiamo stare fermi qui in città per molto tempo, c’è chi parla di un mese finché non verrà organizzato il viaggio a nord. Noi tra massimo due giorni partiamo”.
Lo stadio ha preso le sembianze di un campo profughi. Una sedia e una forbice si trasformano in un parrucchiere. Uno scalino con cinque pacchetti di sigarette diventano un tabaccaio. Per arrivare a Tijuana ci sono altri 2.000 chilometri. Poi c’è il confine, il muro, i soldati mandati da Donald Trump e i paramilitari che pattugliano il deserto. “Se ci offrono un lavoro qui in Messico possiamo fermarci – Juan Salcedo, 35 anni viaggia con la moglie e due figli – negli ultimi anni non ho lavorato molto. Faccio il camionista, ma sono pronto a cambiare”.