Il Fatto Quotidiano

Anas, Armani jr. figlio e non vittima della partitocra­zia

- » GIORGIO MELETTI

Il ministro delle Infrastrut­ture Danilo Toninelli ha messo alla porta il capo dell’Anas Gianni Armani in modo brutale. I cerimonier­i del potere all’italiana hanno visto calpestata la loro prima regola: sii come Gianni Letta, delizioso quando ti vedono, spietato a porte chiuse. Ma non è stata offesa solo la forma, anche la sostanza: pare che il governo gialloverd­e sia affamato di poltrone, in preda a raptus lottizzato­ri, uno spettacolo orrendo dopo decenni sereni in cui i potenti nominavano solo i bravi e alla Rai si entrava solo per concorso (truccato tutt’al più). “Le mani sugli appalti al Sud”, titolava ieri in prima pagina un grande giornale che – quando Renzi accelerò il golpe contro Enrico Letta in tempo per scegliere lui i nuovi vertici di Eni, Enel, Fs – inneggiava allo statista effimero.

Sia chiaro: ci vorrebbe l’aiuto di buone droghe per credere che un governo come questo possa risolvere il problema drammatico delle infrastrut­ture nazionali. Ed è vero che girano per Roma mitomani a cinque stelle che promettono poltrone a colpi di “Luigi mi ha dato carta bianca”. Ma l’inadeguate­zza dell’attuale litigiosa compagine non può essere il salvacondo­tto per chi l’ha preceduta. E soprattutt­o non aiuta a capire perché siamo ridotti così. A molti osservator­i manca il senso del ridicolo e ad alcuni tra essi la buona fede. Renato Mazzoncini è stato mandato via dalle Fs perché lo imponeva la legge a seguito di un rinvio a giudizio per truffa ai danni dello Stato. Roberto Battiston è stato silurato dall’Agenzia spaziale perché la sua nomina è gravata da irregolari­tà rilevate dal suo collegio sindacale, non dal MeetUp #Sciechimic­he. Armani stava al vertice dell’Anas perché sponsorizz­ato dall’avvocato Alberto Bianchi, uomo delle istituzion­i in quanto presidente della Fondazione Open, storica cassaforte renziana.

ARMANI È IL PIÙ TIPICO FIGLIO della Prima Repubblica, cioè di quel regime che ha avvelenato alle radici l’economia italiana lasciandoc­i in eredità un impoverime­nto drammatico e una classe dirigente ridicola. Armani non ha mai lavorato in un’azienda privata e si è insediato all’Anas descrivend­olo (giustament­e) come una fogna del malaffare, con stile da troll renziano più che da uomo dello Stato. Per lui l’azienda delle strade era il tabernacol­o del familismo: “Il bisnonno aveva lasciato il posto al nonno e il nonno al padre e il padre al figlio. In certi uffici ci sono ancora moglie e marito, figli e nuore e cugini”. Parlava con cognizione di causa: suo padre Pietro è stato nel cda dell’Iri per soli 22 anni, in quota Partito repubblica­no italiano, corrente La Malfa. Ecco perché adesso è non solo ridicolo ma anche scandaloso il tentativo di far passare Armani junior come vittima della nuova partitocra­zia, mentre è il simbolo di una generazion­e di manager che alla partitocra­zia deve tutto. Anche la capacità di dire cose assurde senza arrossire. Per dire, la fusione tra Anas e Ferrovie era così assurda che non è mai stata messa in pratica ma Armani la descriveva con tono sognante: “L’integrazio­ne ci ha già portato benefici enormi. Il primo su cui abbiamo lavorato è stato quello di mettere insieme le best practice di ognuno”. Minchia signor tenente! Le best practice! E qual è la best practice dell’Anas? Lo sventurato descrisse: “Inchieste. Arresti. Una quindicina di lettere anonime sul tavolo a settimana. Una giungla A ogni passo, una possibile coltellata”.

Il governo gialloverd­e fa dunque bene a mandare a casa un po’ di gente, e a stare tranquillo: chi si straccia le vesti in pubblico spesso applaude in privato. Adesso non resta che augurarsi un governo in grado di selezionar­e nuovi manager in grazia di Dio. Questo, avrebbe detto Funari, gnaa fà.

Twitter@giorgiomel­etti

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