Anas, Armani jr. figlio e non vittima della partitocrazia
Il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha messo alla porta il capo dell’Anas Gianni Armani in modo brutale. I cerimonieri del potere all’italiana hanno visto calpestata la loro prima regola: sii come Gianni Letta, delizioso quando ti vedono, spietato a porte chiuse. Ma non è stata offesa solo la forma, anche la sostanza: pare che il governo gialloverde sia affamato di poltrone, in preda a raptus lottizzatori, uno spettacolo orrendo dopo decenni sereni in cui i potenti nominavano solo i bravi e alla Rai si entrava solo per concorso (truccato tutt’al più). “Le mani sugli appalti al Sud”, titolava ieri in prima pagina un grande giornale che – quando Renzi accelerò il golpe contro Enrico Letta in tempo per scegliere lui i nuovi vertici di Eni, Enel, Fs – inneggiava allo statista effimero.
Sia chiaro: ci vorrebbe l’aiuto di buone droghe per credere che un governo come questo possa risolvere il problema drammatico delle infrastrutture nazionali. Ed è vero che girano per Roma mitomani a cinque stelle che promettono poltrone a colpi di “Luigi mi ha dato carta bianca”. Ma l’inadeguatezza dell’attuale litigiosa compagine non può essere il salvacondotto per chi l’ha preceduta. E soprattutto non aiuta a capire perché siamo ridotti così. A molti osservatori manca il senso del ridicolo e ad alcuni tra essi la buona fede. Renato Mazzoncini è stato mandato via dalle Fs perché lo imponeva la legge a seguito di un rinvio a giudizio per truffa ai danni dello Stato. Roberto Battiston è stato silurato dall’Agenzia spaziale perché la sua nomina è gravata da irregolarità rilevate dal suo collegio sindacale, non dal MeetUp #Sciechimiche. Armani stava al vertice dell’Anas perché sponsorizzato dall’avvocato Alberto Bianchi, uomo delle istituzioni in quanto presidente della Fondazione Open, storica cassaforte renziana.
ARMANI È IL PIÙ TIPICO FIGLIO della Prima Repubblica, cioè di quel regime che ha avvelenato alle radici l’economia italiana lasciandoci in eredità un impoverimento drammatico e una classe dirigente ridicola. Armani non ha mai lavorato in un’azienda privata e si è insediato all’Anas descrivendolo (giustamente) come una fogna del malaffare, con stile da troll renziano più che da uomo dello Stato. Per lui l’azienda delle strade era il tabernacolo del familismo: “Il bisnonno aveva lasciato il posto al nonno e il nonno al padre e il padre al figlio. In certi uffici ci sono ancora moglie e marito, figli e nuore e cugini”. Parlava con cognizione di causa: suo padre Pietro è stato nel cda dell’Iri per soli 22 anni, in quota Partito repubblicano italiano, corrente La Malfa. Ecco perché adesso è non solo ridicolo ma anche scandaloso il tentativo di far passare Armani junior come vittima della nuova partitocrazia, mentre è il simbolo di una generazione di manager che alla partitocrazia deve tutto. Anche la capacità di dire cose assurde senza arrossire. Per dire, la fusione tra Anas e Ferrovie era così assurda che non è mai stata messa in pratica ma Armani la descriveva con tono sognante: “L’integrazione ci ha già portato benefici enormi. Il primo su cui abbiamo lavorato è stato quello di mettere insieme le best practice di ognuno”. Minchia signor tenente! Le best practice! E qual è la best practice dell’Anas? Lo sventurato descrisse: “Inchieste. Arresti. Una quindicina di lettere anonime sul tavolo a settimana. Una giungla A ogni passo, una possibile coltellata”.
Il governo gialloverde fa dunque bene a mandare a casa un po’ di gente, e a stare tranquillo: chi si straccia le vesti in pubblico spesso applaude in privato. Adesso non resta che augurarsi un governo in grado di selezionare nuovi manager in grazia di Dio. Questo, avrebbe detto Funari, gnaa fà.
Twitter@giorgiomeletti