Il Fatto Quotidiano

“Volevo giocare a calcio, ora cucino peggio di Tognazzi”

L’INTERVISTA L’attore diventa regista di “Erre11”: “Per fortuna non dirigo mia moglie Laura Chiatti”

- » ALESSANDRO FERRUCCI

Sto oo op ! Fine ciak. E Marco Bocci quasi si ribalta per uscire al volo da un’auto allestita a studio, e corre verso Libero De Rienzo e Antonia Liskova per abbracciar­li. I due abbassano le spalle e sorridono, non sono più spiazzati dagli entusiasmi del loro regista quando apprezza la scena: “È una sorta di partecipaz­ione e sfogo, all’inizio erano tutti un po’ turbati, adesso se limito l’emozioni si preoccupan­o, temono ci sia qualcosa che non va”. Lui è il bonazzo del cinema italiano: occhi verdi, capelli corvini, barba incolta, orecchini, ruoli spesso da tenebroso come quello del commissari­o Scialoja in Romanzo criminale, un matrimonio ultra gossip con Laura Chiatti, e un’altra serie infinita di cliché da stritolare qualunque aspirazion­e da reale artista. Soluzione? “Un passo dietro la telecamera per dedicarmi alla prima regia, e realizzare un sogno”; un sogno tratto dal suo primo romanzo, A Tor Bella Monaca non piove mai. Così ecco le effusioni, le urla di gioia, gli incitament­i, qualche consiglio consegnato con garbo e non solo per gli attori: si preoccupa dell’appetito di ogni presente sul set (“hai preso il cestino?” rivolto a un tecnico); i selfie derubricat­i alle brevi pause, con frotte di donne, ragazze e ragazzine arrossite, ma sempre armate di cellulare in modalità “camera”. Quale regista l’ha mai abbracciat­a?

In realtà nessuno.

E lei?

Che devo fare? Non mi contengo, sono troppe felice; è da 18 anni che aspetto questi momenti.

È ancora molto giovane.

Sì, ma il primo film l’ho scritto a 22 anni, poi ho archiviato il progetto per seguire la scuola di teatro, quindi il cinema e la fiction, ma sempre con lo sguardo sugli aspetti tecnici: da come si muove la macchina da presa ai piccoli segreti dietro le quinte.

Dopo “Jeeg Robot”, Tor Bella ancora protagonis­ta.

Il quartiere non sarà mai citato, non volevo fossilizza­rmi su un luogo, mi interessan­o più le dinamiche umane che si sprigionan­o nelle periferie d’Italia, gli affitti non pagati, la disoccupaz­ione, le pensioni al minimo.

Conosce queste realtà? Sono nato e cresciuto in una famiglia molto normale, dove non ci è mancato nulla, però mio padre era un meccanico, mia madre un’imp iega ta, persone dedite agli aspetti pratici della vita, e quando sono arrivato a Roma ho abitato in questo quartiere per un anno e mezzo.

Cosa ha rubato ai registi con i quali ha lavorato?

Sono cresciuto tantissimo con Stefano Sollima e lui sul set è molto deciso, un profession­ista determinat­o su dove portare la storia e come dirigere gli attori.

E poi?

Mi sono ispirato all’allegria e alla spensierat­ezza di Stefano Mordini (regista di Provincia meccanica, Pericle il nero e Solo).

Con lui allegro e spensierat­o non sono i primi aggettivi che vengono in mente.

Chi non lo conosce non se lo aspetta, e messa così sembra una mia presa in giro, ma è così, ed è bravissimo a cogliere gli aspetti più profondi e introversi dei personaggi.

Proseguiam­o...

Penso agli accenti grotteschi nei film di Lina Wertmüller, ai toni degli anni Settanta, pellicole scoperte grazie a piccole cineteche: da piccolo in television­e passavano solo i B Movie con Edwige Fenech e Barbara Bouchet, e non c’era mica internet.

Il suo cult?

Pasqualino Settebelle­zze, Giannini mito assoluto.

Lo ha conosciuto?

Di più, ho avuto la fortuna di lavorare con lui, e di passarci molto tempo insieme: giravamo tra Enna e provincia, in mezzo quasi il nulla, nessuna distrazion­e, restavano le serate davanti a un bicchiere di vino, e lo massacravo con le mie domande sulla sua vita.

Un interrogat­orio.

Gli ho chiesto di tutto.

Il suo viso un po’ ricorda il Giannini anni Settanta... Qualcosa sì, mentre mio padre era identico, lo fermavano per strada per chiedergli l’autografo.

Lo concedeva? Assolutame­nte sì.

Secondo Antonio Manzini i set sono un letamaio...

Per certi aspetti ci sono situazioni o reparti di una troupe con una gerarchia devastante, e questa gerarchia non è sempre un’accezione negativa, per il resto non mi sono mai trovato male, piuttosto ho raggiunto momenti di scarsa sopportazi­one, quando non puoi più vedere nessuno.

Tipo con “Romanzo criminale”?

No, lì era l’inizio, quasi tutti all’esordio, pieni di dubbi e aspettativ­e, ci domandavam­o quale sarebbe stato il nostro

futuro, ci rassicurav­amo, ci spalleggia­vamo, e poi non giravamo di seguito, mentre con Solo (altra serie televisiva) sono stato cinque mesi fisso su un set: alla fine detesti chiunque. Da regista come giudica gli attori?

Hanno una sensibilit­à molto particolar­e che nasce da una costante esposizion­e al giudizio del prossimo. Incertezza perenne.

E a nessuno piace il continuo dito puntato; è come vivere in un metaforico e giornalier­o colloquio di lavoro, dove niente o quasi è assodato; dove le certezze diventano presunte e inciampare è un attimo. Lei ha il reflusso gastrico?

Sì, perché?

Quasi tutti ne soffrite. Se per questo l’ho trasmesso a mio figlio. Osmosi.

Purtroppo sì, ma siamo guariti e grazie a un approccio particolar­e rispetto a questo mestiere. Dove la salvezza?

Non confondere il lavoro con la vita. Vive in provincia.

Esatto, scindo le cose: la famiglia e i rapporti, quelli veri, sono in un paesino dell’Umbria; il mio mestiere è altrove. E il “mestiere” non la rincorre lì?

Solo all’inizio del matrimonio con Laura: trovavamo i giornalist­i ovunque, microfoni e macchine fotografic­he in agguato; ora quasi mai, è

L’ impostazio­ne era maniacale, poi ho rotto il ghiaccio, ho costruito un rapporto più schietto, sempre nel rispetto dei ruoli

LUCA RONCONI

In ‘Romanzo criminale’ Quando ho interpreta­to Scialoja ero diventato lui: pesavo 56 chili, mia sorella non mi riconoscev­a

scattata l’abitudine, e la notizia ripetuta non è più notizia, basta non alimentare la fiamma, per questo non utilizzo i social. Mai...

Ne ho aperto solo uno quando ho pubblicato il mio libro e l’editore mi ha detto: “Marco il mercato è in crisi, dobbiamo sfruttare ogni canale di comunicazi­one”, quindi ho ceduto, poi basta. Pensa ad altro.

Quando sono in Umbria preferisco cucinare. Come Ugo Tognazzi.

Sicuro sono peggio di lui, però tento la pasta fatta in casa. Quadretto perfetto.

Almeno ci provo.

Il regista è padre degli attori?

In qualche modo devi cercare di rassicurar­li, ma i miei sono davvero bravissimi (si ferma, ci pensa). La chiave è sceglie- re la troupe, evitare i polemici, i guasti, i problemati­ci; ho reclutato persone di vecchia conoscenza, con i quali ho già lavorato al meglio. Che poster aveva in camera?

Oltre a Giannini? I miei miti musicali degli anni Ottanta: Kurt Cobain e Axl Rose. Suonava la chitarra?

E cantavo in alcuni gruppi metal ma senza troppo successo. Sarebbe andato a X Factor?

Non avrei avuto il coraggio, troppo timido e introverso.

Lei di sicuro con la chitarra sulla spiaggia.

(Scoppia a ridere) Solo un anno e quando ancora non sapevo cosa fosse il sesso: i miei mi

avevano spedito per due mesi in campeggio a Montalto di Castro. Vicino alla chic Capalbio.

Per noi lontanissi­ma sia fisicament­e che socialment­e: in campeggio ero con i nonni, poi gli zii, quindi i genitori. Nella vita serve più il talento o la perseveran­za?

Tutte e due.

Scelga.

Allora il talento, perché se arriva la botta di culo vinci sulla perseveran­za. Meglio Cassano o Gattuso?

Gattuso tutta la vita. Lui è perseveran­za.

Va bene, ma sono milanista, e non potevo rispondere altrimenti.

Rossonero praticante? Oggi no, ma per dieci anni ho giocato a pallone e sono arrivato fino alle giovanili della Roma prima, della Fiorentina poi. Fino a quando...

Stavo in porta e a un certo punto ho capito che non avrei mai raggiunto i centimetri necessari; persa la convinzion­e cieca, a 16 anni non avevo più alcuna voglia di iniziare la preparazio­ne il 20 luglio. Oggi non guardo neanche una partita. Prima si è definito un ragazzo timido e introverso.

È servito molto il teatro e soprattutt­o la fortuna di lavorare con Luca Ronconi. Il suo record sul palco con Ronconi?

Mi è andata bene, solo sei ore; ma con lui se ne lavoravano circa 14-15 al giorno: un massacro, però sono riuscito a condivider­e l’esperienza con artisti di livello incredibil­e, quali Massimo Popolizio e Mariangela Melato. L’aiutavano?

In realtà no, quando studiavi la parte con Luca, i margini per interagire erano pochissimi, l’impostazio­ne era ossessiva, anzi maniacale, la sua presenza puntuta. Intimorito.

All’inizio direi in soggezione, poi ho rotto il ghiaccio e ho costruito un rapporto più schietto, ma senza entrare eccessivam­ente nel confidenzi­ale, sempre nel rispetto dei ruoli. Ansia da prestazion­e?

Per forza! Parliamo di Ronco-

ni, con lui non avevi spazio per nient’altro, mica ti potevi fermare a parlare o confrontar­ti. Quando, invece...

Avevo davanti dei mostri di bravura. Austeri.

La Melato un po’, ma grandiosa; e poi mi presentavo con questa aura di provincia che mi bloccava oltremodo, temevo il passo oltre il consentito. MeToo al maschile: è stato mai infastidit­o?

No, ma per un motivo: annuso l’aria molto prima dei fatti, e ne esco in tempo. Può succedere, quindi...

Certo, non dico come in ogni

posto zi: prima di lavoro, di diventare ma quasi; attore, and’estate agricolo, sono poi cantiniere, stato bracciante quindi di situazioni ho studiato potenzialm­ente architettu­ra, e dubbie tate in maniera ne ho odorate paracula. ed eviEsiste di “Romanzo una chat criminale”: degli attori ne Li sento fa parte? tutti ma la chat non la continuo reggo: mi trillare rompo del le cellula- palle al re. Dicevamo: ansia da palco?

Tantissima: male, in scena tremo, è obbligator­ia mi sento una bottiglia di acqua a vista, sempre a disposizio­ne, e anche alla quarantesi­ma replica mi salta la voce, sento i disturbi alle corde vocali; quando parto per la tournée ho con me il kit di farmaci, perché so che quindici giorni prima del debutto accade qualcosa. La fortuna è...

Che riesco a razionaliz­zare tutto.

Però ultimament­e è stato molto male.

Fregato da un herpes sottovalut­ato: dal labbro è passato al cervello e a causa delle difese immunitari­e azzerate; ho rischiato molto e stare chiuso in ospedale si è tramutata in una bella lezione di vita su come gestire il tempo. Sua moglie non è più nel cast del film...

Abbiamo le stesse priorità: la mamma non è stata bene e ha giustament­e preferito rimanere con lei. Non era preoccupat­o di dirigerla...

Sotto certi aspetti sì, ma lei nella recitazion­e ha una leggerezza rara, non è una che si intestardi­sce: ti dà l’an im a senza distrugger­ti. Spesso ha condiviso il set con Giulia Michelini.

Un vulcano, un mostro. Istinto puro a disposizio­ne dell’arte. Ha dentro di sé un’enorme esperienza innata e neanche se ne rende pienamente conto. Lei ha imparato a sottrarsi dai personaggi che interpreta? Sulla mia pelle: quando ho interpreta­to Scialoja ero diventato lui, mia sorella neanche mi riconoscev­a. Tornava a casa da commissari­o.

Mi fissavo come lui, introverso e cerebrale come lui, anche mio padre preoccupat­issimo mi domandava se era il mestiere giusto per me: in quel periodo pesavo 56 chili e tutte le mattine correvo un’ora e un quarto, senza mai saltare un giorno. (Arriva l’assistente: “A Ma’ è finita la pausa, devi tornare sul set”). Mi scusi... Prego.

Finiremo questa notte e mi godo ogni minuto. Finalmente giro il mio Erre11... Con testa, cuore e abbracci.

Twitter: @A_Ferrucci

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Ansa Sul set Bocci sta girando il suo primo film con Libero De Rienzo e Antonia Liskova. Qui, con Laura Chiatti
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Ansa Il commissari­o Marco Bocci era Scialoja in “Romanzo criminale”

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