“Volevo giocare a calcio, ora cucino peggio di Tognazzi”
L’INTERVISTA L’attore diventa regista di “Erre11”: “Per fortuna non dirigo mia moglie Laura Chiatti”
Sto oo op ! Fine ciak. E Marco Bocci quasi si ribalta per uscire al volo da un’auto allestita a studio, e corre verso Libero De Rienzo e Antonia Liskova per abbracciarli. I due abbassano le spalle e sorridono, non sono più spiazzati dagli entusiasmi del loro regista quando apprezza la scena: “È una sorta di partecipazione e sfogo, all’inizio erano tutti un po’ turbati, adesso se limito l’emozioni si preoccupano, temono ci sia qualcosa che non va”. Lui è il bonazzo del cinema italiano: occhi verdi, capelli corvini, barba incolta, orecchini, ruoli spesso da tenebroso come quello del commissario Scialoja in Romanzo criminale, un matrimonio ultra gossip con Laura Chiatti, e un’altra serie infinita di cliché da stritolare qualunque aspirazione da reale artista. Soluzione? “Un passo dietro la telecamera per dedicarmi alla prima regia, e realizzare un sogno”; un sogno tratto dal suo primo romanzo, A Tor Bella Monaca non piove mai. Così ecco le effusioni, le urla di gioia, gli incitamenti, qualche consiglio consegnato con garbo e non solo per gli attori: si preoccupa dell’appetito di ogni presente sul set (“hai preso il cestino?” rivolto a un tecnico); i selfie derubricati alle brevi pause, con frotte di donne, ragazze e ragazzine arrossite, ma sempre armate di cellulare in modalità “camera”. Quale regista l’ha mai abbracciata?
In realtà nessuno.
E lei?
Che devo fare? Non mi contengo, sono troppe felice; è da 18 anni che aspetto questi momenti.
È ancora molto giovane.
Sì, ma il primo film l’ho scritto a 22 anni, poi ho archiviato il progetto per seguire la scuola di teatro, quindi il cinema e la fiction, ma sempre con lo sguardo sugli aspetti tecnici: da come si muove la macchina da presa ai piccoli segreti dietro le quinte.
Dopo “Jeeg Robot”, Tor Bella ancora protagonista.
Il quartiere non sarà mai citato, non volevo fossilizzarmi su un luogo, mi interessano più le dinamiche umane che si sprigionano nelle periferie d’Italia, gli affitti non pagati, la disoccupazione, le pensioni al minimo.
Conosce queste realtà? Sono nato e cresciuto in una famiglia molto normale, dove non ci è mancato nulla, però mio padre era un meccanico, mia madre un’imp iega ta, persone dedite agli aspetti pratici della vita, e quando sono arrivato a Roma ho abitato in questo quartiere per un anno e mezzo.
Cosa ha rubato ai registi con i quali ha lavorato?
Sono cresciuto tantissimo con Stefano Sollima e lui sul set è molto deciso, un professionista determinato su dove portare la storia e come dirigere gli attori.
E poi?
Mi sono ispirato all’allegria e alla spensieratezza di Stefano Mordini (regista di Provincia meccanica, Pericle il nero e Solo).
Con lui allegro e spensierato non sono i primi aggettivi che vengono in mente.
Chi non lo conosce non se lo aspetta, e messa così sembra una mia presa in giro, ma è così, ed è bravissimo a cogliere gli aspetti più profondi e introversi dei personaggi.
Proseguiamo...
Penso agli accenti grotteschi nei film di Lina Wertmüller, ai toni degli anni Settanta, pellicole scoperte grazie a piccole cineteche: da piccolo in televisione passavano solo i B Movie con Edwige Fenech e Barbara Bouchet, e non c’era mica internet.
Il suo cult?
Pasqualino Settebellezze, Giannini mito assoluto.
Lo ha conosciuto?
Di più, ho avuto la fortuna di lavorare con lui, e di passarci molto tempo insieme: giravamo tra Enna e provincia, in mezzo quasi il nulla, nessuna distrazione, restavano le serate davanti a un bicchiere di vino, e lo massacravo con le mie domande sulla sua vita.
Un interrogatorio.
Gli ho chiesto di tutto.
Il suo viso un po’ ricorda il Giannini anni Settanta... Qualcosa sì, mentre mio padre era identico, lo fermavano per strada per chiedergli l’autografo.
Lo concedeva? Assolutamente sì.
Secondo Antonio Manzini i set sono un letamaio...
Per certi aspetti ci sono situazioni o reparti di una troupe con una gerarchia devastante, e questa gerarchia non è sempre un’accezione negativa, per il resto non mi sono mai trovato male, piuttosto ho raggiunto momenti di scarsa sopportazione, quando non puoi più vedere nessuno.
Tipo con “Romanzo criminale”?
No, lì era l’inizio, quasi tutti all’esordio, pieni di dubbi e aspettative, ci domandavamo quale sarebbe stato il nostro
futuro, ci rassicuravamo, ci spalleggiavamo, e poi non giravamo di seguito, mentre con Solo (altra serie televisiva) sono stato cinque mesi fisso su un set: alla fine detesti chiunque. Da regista come giudica gli attori?
Hanno una sensibilità molto particolare che nasce da una costante esposizione al giudizio del prossimo. Incertezza perenne.
E a nessuno piace il continuo dito puntato; è come vivere in un metaforico e giornaliero colloquio di lavoro, dove niente o quasi è assodato; dove le certezze diventano presunte e inciampare è un attimo. Lei ha il reflusso gastrico?
Sì, perché?
Quasi tutti ne soffrite. Se per questo l’ho trasmesso a mio figlio. Osmosi.
Purtroppo sì, ma siamo guariti e grazie a un approccio particolare rispetto a questo mestiere. Dove la salvezza?
Non confondere il lavoro con la vita. Vive in provincia.
Esatto, scindo le cose: la famiglia e i rapporti, quelli veri, sono in un paesino dell’Umbria; il mio mestiere è altrove. E il “mestiere” non la rincorre lì?
Solo all’inizio del matrimonio con Laura: trovavamo i giornalisti ovunque, microfoni e macchine fotografiche in agguato; ora quasi mai, è
L’ impostazione era maniacale, poi ho rotto il ghiaccio, ho costruito un rapporto più schietto, sempre nel rispetto dei ruoli
LUCA RONCONI
In ‘Romanzo criminale’ Quando ho interpretato Scialoja ero diventato lui: pesavo 56 chili, mia sorella non mi riconosceva
scattata l’abitudine, e la notizia ripetuta non è più notizia, basta non alimentare la fiamma, per questo non utilizzo i social. Mai...
Ne ho aperto solo uno quando ho pubblicato il mio libro e l’editore mi ha detto: “Marco il mercato è in crisi, dobbiamo sfruttare ogni canale di comunicazione”, quindi ho ceduto, poi basta. Pensa ad altro.
Quando sono in Umbria preferisco cucinare. Come Ugo Tognazzi.
Sicuro sono peggio di lui, però tento la pasta fatta in casa. Quadretto perfetto.
Almeno ci provo.
Il regista è padre degli attori?
In qualche modo devi cercare di rassicurarli, ma i miei sono davvero bravissimi (si ferma, ci pensa). La chiave è sceglie- re la troupe, evitare i polemici, i guasti, i problematici; ho reclutato persone di vecchia conoscenza, con i quali ho già lavorato al meglio. Che poster aveva in camera?
Oltre a Giannini? I miei miti musicali degli anni Ottanta: Kurt Cobain e Axl Rose. Suonava la chitarra?
E cantavo in alcuni gruppi metal ma senza troppo successo. Sarebbe andato a X Factor?
Non avrei avuto il coraggio, troppo timido e introverso.
Lei di sicuro con la chitarra sulla spiaggia.
(Scoppia a ridere) Solo un anno e quando ancora non sapevo cosa fosse il sesso: i miei mi
avevano spedito per due mesi in campeggio a Montalto di Castro. Vicino alla chic Capalbio.
Per noi lontanissima sia fisicamente che socialmente: in campeggio ero con i nonni, poi gli zii, quindi i genitori. Nella vita serve più il talento o la perseveranza?
Tutte e due.
Scelga.
Allora il talento, perché se arriva la botta di culo vinci sulla perseveranza. Meglio Cassano o Gattuso?
Gattuso tutta la vita. Lui è perseveranza.
Va bene, ma sono milanista, e non potevo rispondere altrimenti.
Rossonero praticante? Oggi no, ma per dieci anni ho giocato a pallone e sono arrivato fino alle giovanili della Roma prima, della Fiorentina poi. Fino a quando...
Stavo in porta e a un certo punto ho capito che non avrei mai raggiunto i centimetri necessari; persa la convinzione cieca, a 16 anni non avevo più alcuna voglia di iniziare la preparazione il 20 luglio. Oggi non guardo neanche una partita. Prima si è definito un ragazzo timido e introverso.
È servito molto il teatro e soprattutto la fortuna di lavorare con Luca Ronconi. Il suo record sul palco con Ronconi?
Mi è andata bene, solo sei ore; ma con lui se ne lavoravano circa 14-15 al giorno: un massacro, però sono riuscito a condividere l’esperienza con artisti di livello incredibile, quali Massimo Popolizio e Mariangela Melato. L’aiutavano?
In realtà no, quando studiavi la parte con Luca, i margini per interagire erano pochissimi, l’impostazione era ossessiva, anzi maniacale, la sua presenza puntuta. Intimorito.
All’inizio direi in soggezione, poi ho rotto il ghiaccio e ho costruito un rapporto più schietto, ma senza entrare eccessivamente nel confidenziale, sempre nel rispetto dei ruoli. Ansia da prestazione?
Per forza! Parliamo di Ronco-
ni, con lui non avevi spazio per nient’altro, mica ti potevi fermare a parlare o confrontarti. Quando, invece...
Avevo davanti dei mostri di bravura. Austeri.
La Melato un po’, ma grandiosa; e poi mi presentavo con questa aura di provincia che mi bloccava oltremodo, temevo il passo oltre il consentito. MeToo al maschile: è stato mai infastidito?
No, ma per un motivo: annuso l’aria molto prima dei fatti, e ne esco in tempo. Può succedere, quindi...
Certo, non dico come in ogni
posto zi: prima di lavoro, di diventare ma quasi; attore, and’estate agricolo, sono poi cantiniere, stato bracciante quindi di situazioni ho studiato potenzialmente architettura, e dubbie tate in maniera ne ho odorate paracula. ed eviEsiste di “Romanzo una chat criminale”: degli attori ne Li sento fa parte? tutti ma la chat non la continuo reggo: mi trillare rompo del le cellula- palle al re. Dicevamo: ansia da palco?
Tantissima: male, in scena tremo, è obbligatoria mi sento una bottiglia di acqua a vista, sempre a disposizione, e anche alla quarantesima replica mi salta la voce, sento i disturbi alle corde vocali; quando parto per la tournée ho con me il kit di farmaci, perché so che quindici giorni prima del debutto accade qualcosa. La fortuna è...
Che riesco a razionalizzare tutto.
Però ultimamente è stato molto male.
Fregato da un herpes sottovalutato: dal labbro è passato al cervello e a causa delle difese immunitarie azzerate; ho rischiato molto e stare chiuso in ospedale si è tramutata in una bella lezione di vita su come gestire il tempo. Sua moglie non è più nel cast del film...
Abbiamo le stesse priorità: la mamma non è stata bene e ha giustamente preferito rimanere con lei. Non era preoccupato di dirigerla...
Sotto certi aspetti sì, ma lei nella recitazione ha una leggerezza rara, non è una che si intestardisce: ti dà l’an im a senza distruggerti. Spesso ha condiviso il set con Giulia Michelini.
Un vulcano, un mostro. Istinto puro a disposizione dell’arte. Ha dentro di sé un’enorme esperienza innata e neanche se ne rende pienamente conto. Lei ha imparato a sottrarsi dai personaggi che interpreta? Sulla mia pelle: quando ho interpretato Scialoja ero diventato lui, mia sorella neanche mi riconosceva. Tornava a casa da commissario.
Mi fissavo come lui, introverso e cerebrale come lui, anche mio padre preoccupatissimo mi domandava se era il mestiere giusto per me: in quel periodo pesavo 56 chili e tutte le mattine correvo un’ora e un quarto, senza mai saltare un giorno. (Arriva l’assistente: “A Ma’ è finita la pausa, devi tornare sul set”). Mi scusi... Prego.
Finiremo questa notte e mi godo ogni minuto. Finalmente giro il mio Erre11... Con testa, cuore e abbracci.
Twitter: @A_Ferrucci