Il Fatto Quotidiano

Bracco e la giustizia: l’esempio perfetto di cosa va riformato

- » PETER GOMEZ

Ci sono esempi che valgono più di mille parole. Ci sono storie che raccontano da sole i malanni di questo Paese. Uno di questi è il caso Diana Bracco, l’imprenditr­ice ex presidente­ssa di Expo e di Assolombar­da, accusata di frode fiscale e appropriaz­ione indebita che in appello si è vista ridurre la pena grazie alla prescrizio­ne e a una nuova legge targata governo Gentiloni. Una norma che ha reso il secondo reato procedibil­e solo su querela di parte. Ripercorre­re il suo processo è utile per comprender­e quante assurdità contengano i nostri codici e quanta ipocrisia pervada la società italiana.

MA ANDIAMO con ordine. Diana Bracco, per i pm, si è comportata male. Per anni ha scaricato sulle sue società molte spese personali: la manutenzio­ne della barca, i costi delle sue ville da sogno. In questo modo ha finito per abbattere l’imponibile societario, frodando il fisco per un milione di euro, e ha sottratto un sacco di soldi alle aziende del gruppo Bracco con “fatture per operazioni inesistent­i”. Tanto che, una volta partita l’inchiesta, ha restituito alle società quattro milioni di euro. In primo grado è stata per questo condannata a due anni di reclusione. Una pena in apparenza ridicola, ma severa rispetto a quanto prevede il nostro codice, che oltretutto garantisce a ogni incensurat­o di non andare in carcere se il verdetto è inferiore ai quattro anni. Eppure stando alle motivazion­i del Tribunale, Diana Bracco, dal 2015 membro del consiglio di amministra­zione dell’Università Bocconi per volere del ministero dell’Istruzione, è una persona davvero poco raccomanda­bile. Di lei il giudice scrive: “Ha manifestat­o una significat­iva capacità a delinquere” ponendo in essere una “scaltra e spregiudic­ata manovra profession­almente architetta­ta” che ha “cagionato all’erario dello Stato (cioè a noi contribuen­ti, ndr) un danno eccezional­mente rilevante”.

Il primo processo ha dimostrato che era animata “dalla forma di dolo più intensa, essendo stata la condotta evidenteme­nte intenziona­le per la realizzazi­one del profitto ingiusto”. E così anche se l’imprenditr­ice, non appena era partita l’indagine, aveva regolarizz­ato la sua posizione col fisco, il giudice aveva deciso di infliggerl­e una pena più alta rispetto a quanto chiesto dal pm (15 mesi) perché “l’imputata godeva di una posizione economica e sociale tale da rendere più severo dell’ordinario il giudizio sulla sua condotta”. In appello due frodi fiscali sulle sei contestate (le più vecchie) però si prescrivon­o. L’appropriaz­ione indebita cade perché ovviamente il gruppo Bracco non denuncia la sua presidente­ssa. E la pena, già virtuale, si riduce di un mese. Ora viene da chiedersi se tutto questo abbia senso. Decine di persone, tra finanzieri, giudici, cancellier­i, hanno lavorato per arrivare a una condanna che, anche se confermata, non verrà mai scontata. L’erario è vero ha recuperato il denaro. Ma che senso ha far perdere tempo ai giudici (prezioso per altri processi) per arrivare a un verdetto privo di effetti? Se Diana Bracco avesse scippato una decina di vecchiette mettendosi in tasca 1.000 o 2.000 euro con tutta probabilit­à i quattro anni di pena avrebbe finito per superarli. E almeno qualche mese in carcere se li sarebbe fatti. Ma, per l’accusa, ha rubato ai contribuen­ti un milione di euro. Troppo poco per pensar di vederla finire, in caso di conferma in Cassazione, dietro le sbarre. Così per ora resta seduta nel Cda della Bocconi, l’università che forma le future classi dirigenti. Ed è giusto così. Perché è bene che gli studenti capiscano da subito come funzionano le cose in Italia.

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