Bracco e la giustizia: l’esempio perfetto di cosa va riformato
Ci sono esempi che valgono più di mille parole. Ci sono storie che raccontano da sole i malanni di questo Paese. Uno di questi è il caso Diana Bracco, l’imprenditrice ex presidentessa di Expo e di Assolombarda, accusata di frode fiscale e appropriazione indebita che in appello si è vista ridurre la pena grazie alla prescrizione e a una nuova legge targata governo Gentiloni. Una norma che ha reso il secondo reato procedibile solo su querela di parte. Ripercorrere il suo processo è utile per comprendere quante assurdità contengano i nostri codici e quanta ipocrisia pervada la società italiana.
MA ANDIAMO con ordine. Diana Bracco, per i pm, si è comportata male. Per anni ha scaricato sulle sue società molte spese personali: la manutenzione della barca, i costi delle sue ville da sogno. In questo modo ha finito per abbattere l’imponibile societario, frodando il fisco per un milione di euro, e ha sottratto un sacco di soldi alle aziende del gruppo Bracco con “fatture per operazioni inesistenti”. Tanto che, una volta partita l’inchiesta, ha restituito alle società quattro milioni di euro. In primo grado è stata per questo condannata a due anni di reclusione. Una pena in apparenza ridicola, ma severa rispetto a quanto prevede il nostro codice, che oltretutto garantisce a ogni incensurato di non andare in carcere se il verdetto è inferiore ai quattro anni. Eppure stando alle motivazioni del Tribunale, Diana Bracco, dal 2015 membro del consiglio di amministrazione dell’Università Bocconi per volere del ministero dell’Istruzione, è una persona davvero poco raccomandabile. Di lei il giudice scrive: “Ha manifestato una significativa capacità a delinquere” ponendo in essere una “scaltra e spregiudicata manovra professionalmente architettata” che ha “cagionato all’erario dello Stato (cioè a noi contribuenti, ndr) un danno eccezionalmente rilevante”.
Il primo processo ha dimostrato che era animata “dalla forma di dolo più intensa, essendo stata la condotta evidentemente intenzionale per la realizzazione del profitto ingiusto”. E così anche se l’imprenditrice, non appena era partita l’indagine, aveva regolarizzato la sua posizione col fisco, il giudice aveva deciso di infliggerle una pena più alta rispetto a quanto chiesto dal pm (15 mesi) perché “l’imputata godeva di una posizione economica e sociale tale da rendere più severo dell’ordinario il giudizio sulla sua condotta”. In appello due frodi fiscali sulle sei contestate (le più vecchie) però si prescrivono. L’appropriazione indebita cade perché ovviamente il gruppo Bracco non denuncia la sua presidentessa. E la pena, già virtuale, si riduce di un mese. Ora viene da chiedersi se tutto questo abbia senso. Decine di persone, tra finanzieri, giudici, cancellieri, hanno lavorato per arrivare a una condanna che, anche se confermata, non verrà mai scontata. L’erario è vero ha recuperato il denaro. Ma che senso ha far perdere tempo ai giudici (prezioso per altri processi) per arrivare a un verdetto privo di effetti? Se Diana Bracco avesse scippato una decina di vecchiette mettendosi in tasca 1.000 o 2.000 euro con tutta probabilità i quattro anni di pena avrebbe finito per superarli. E almeno qualche mese in carcere se li sarebbe fatti. Ma, per l’accusa, ha rubato ai contribuenti un milione di euro. Troppo poco per pensar di vederla finire, in caso di conferma in Cassazione, dietro le sbarre. Così per ora resta seduta nel Cda della Bocconi, l’università che forma le future classi dirigenti. Ed è giusto così. Perché è bene che gli studenti capiscano da subito come funzionano le cose in Italia.