Omicidi in diretta tra i vicoli di Manila
Duterte, taglie sui tossici
Per il presidente Rodrigo Duterte il problema principale è lo shabu, una metanfetamina diffusa nel sud-est dell’Asia. Corrode la società, ha detto il 30 giugno 2016 nel suo discorso di insediamento. Frena l’economia. E ha esortato i poliziotti ad assassinare tossici e spacciatori. Non ha mai emanato un decreto, o altro. Nonostante sia un po’ il suo simbolo, la guerra alla droga non si basa su una legge, su un testo scritto, ma solo su discorsi, appunto, su dichiarazioni, battute alla stampa: perché se non c’è legge, non c’è tribunale che possa sfidarla: si basa su una garanzia di impunità. Per l’arresto di un tossico non si ha alcuna ricompensa: ma per la sua eliminazione, sì. Fino a 300 dollari. E così, giri per Manila, adesso, che ha 22,7 milioni di abitanti, per il 70% in povertà, ed è una delle città più popolose al mondo, giri, e un motorino, all’improvviso, sfreccia tra queste case di fango e lamiera, e ognuno sa cosa sta per accadere: e ognuno guarda altrove. Un colpo, secco, e qualcuno muore.
NEGLI SLUM i poveri sono così poveri che quando chiedi un’intervista, ti fissano un appuntamento da McDonald’s, e arrivano con dieci bambini a testa: perché possano avere una cena vera. Il piatto tipico, qui, si chiama pagpag. Quello che compri per strada, come da noi compreresti un panino: è la rifrittura degli avanzi di pollo fritto recuperati nella spazzatura. Lo Stato non esiste. Non asfalta una strada, non allaccia a una rete elettrica. A un acquedotto. Niente. Non apre un asilo, un ambulatorio. Solo, ogni tanto, compaiono due poliziotti, su un motorino: e sparano. Eppure, nessuno si oppone. In qualsiasi altra città, in qualsiasi altro Paese, si avrebbero scontri e barricate. Nelle Filippine nessuno si ribella. Perché? Forse persino le vittime della guerra alla droga sono a favore della guerra alla droga.
Caloocan è l’area in cui si sono avuti più morti. Ed è qui che incontriamo otto consumatori di shabu: ora iscritti a un programma di disintossicazione istituito da quello che definiremmo un prete di frontiera. Sono tutti mogli, mariti, fratel- li di tossici uccisi, e sono tutti segnati dalla povertà, magri, logori, i denti marci, e quest’età indefinibile, trent’anni che sembrano cinquanta: eppure sono grati a Duterte. “Se non mi avesse costretto, non avrei mai smesso”, dice Marisel.
Anche se poi, è chiaro a tutti: questa non è affatto una guerra alla droga. Intanto, perché i tossici non sono 3,7 milioni, come dice Duterte, ma 1,8 milioni: e cioè l’1,7 percento della popolazione, contro una media mondiale del 5,2 percento. “Se la droga fosse realmente un’emergenza il governo investirebbe nei centri di riabilitazione. Invece si limitano a chiuderti per sei mesi in una stanza”, dice Daniel. Ed è così davvero. Davvero ti chiudono per sei mesi in una stanza. I centri di riabilitazione sono solo 50: uno ogni 36mila tossici. E i fondi sono stati tagliati del 75%. “La verità è che questa è una guerra ai poveri”, dice Jay. “Perché lo shabu ti tiene sveglio. Con lo shabu lavori più ore: racimoli più spiccioli. Nessuno spara a chi sniffa coc a i na ”, dice. “Nessuno va a Fort Bonifacio”, che è nel centro di Manila, ma sembra Dubai: a Fort Bonifacio abita quel 10% di filippini che compra una Maserati ogni 5 giorni, perché guadagna quanto l’80% di tutti gli altri: e vive 20 anni di più.
La vita, qui, è così e basta: povertà estrema, estrema ricchezza. Per il resto del mondo, Duterte è come Erdogan, come Trump. O adesso, i populisti europei. Uno un po’ bullo. Un po’grezzo. Uno da liquidare con due battute. “E invece bisogna parlare di Duterte”, scrivono i principali intellettuali filippini in un libro in cui si interrogano sulle ragioni del largo, larghissimo, e granitico, consenso che ha. Perché sono ragioni strutturali, dicono. C’è il singolo, sì: ma c’è soprattutto il contesto che rende il singolo possibile. Duterte non è solo Duterte: è le Filippine. Che sono un arcipelago di 7.107 isole, e dunque, da sempre, un Paese di comunità autonome. Con una geografia del genere, il potere è inevitabilmente potere locale. E cioè è il potere di poche famiglie per cui la cosa pubblica è cosa propria.
NEL 1986 il regime di Ferdinand Marcos, che aveva accumulato una fortuna personale di 10 miliardi di dollari, nonostante, ufficialmente, uno stipendio di mille euro al mese, è stato abbattuto da una rivoluzione: ma non è cambiato niente. Le Filippine restano un’oligarchia. Che Duterte ha sedotto presentandosi come un outsider. Come l’uomo della middle class che sfida la Manila altolocata, un uomo onesto, che con la politica non si è mai arricchito, e soprattutto, un uomo pragmatico, forte, risoluto, che prescinde dalle ideologie: e mentre gli altri parlano, fa. Il suo biglietto da visita è Davao, la città di cui è stato sindaco per oltre vent’anni, e che era la più pericolosa del Paese: oggi è la “più sicura”, se non si contano gli omicidi. La leggenda dice che quando impose il divieto di fumo, obbligò un turista a mangiarsi la sigaretta che si era acceso. Il suo ritratto è ancora ovunque. C’è scritto: Duterte ti guarda.
Padre Luciano, 45 anni, argentino, bergogliano, è il prete di Caloocan. Ed è stato il primo a contestare Duterte. Il primo, e a lungo, l’unico: la Chiesa temeva che Duterte reagisse tirando fuori casi di pedofilia. Ma padre Luciano ha scelto la cooperazione. Non lo scontro: “Avrei potuto organizzare la tipica fiaccolata, ma cosa avremmo ottenuto? Abbiamo deciso invece di integrare l’azione del governo. In modo da garantirci che rispettasse leggi e procedure”, dice. Chi ha seguito i suoi programmi di disintossicazione è stato depennato dalle liste della polizia. “La risposta di Duterte è discutibile – afferma padre Luciano – e neppure efficace. Ma dire che il problema non esiste non è una risposta”.
“Viviamo da sempre a testa bassa”, mi dice Francisco Sionil Jose, uno degli scrittori più noti. “E ora, Duterte è l’uomo de ll ’ o rg og li o”. Jillian Melchor, 24 anni, frequenta la sua libreria, la Solidaridad. Storico ritrovo di romanzieri, musicisti, artisti. Dissidenti. “Duterte – spiega Jillian – non ha idea di come affrontare i problemi del Paese, così svia l’attenzione: è tutta colpa della droga, come gli inglesi dicono che è colpa dell’Europa. E gli italiani dei migranti”.
Per ora, Duterte ha un consenso sconfinato. Ma sono frequenti i casi di filippini uccisi per caso. O per sbaglio. Nelle liste dei sospetti ormai c’è un po’ di tutto: anche perché in cambio di una segnalazione, si viene pagati. Darwin Hamoy, 17 anni, è morto così. Mentre era a una festa di compleanno. Il 15 agosto 2016. Voleva diventare un poliziotto, era un ammiratore di Duterte, racconta sua madre, mentre il figlio più piccolo, 8 anni, divora il secondo cheeseburger da McDonald’s. Vuole diventare un poliziotto come il fratello. Per arrestare gli spacciatori? “Per arrestare i poliziotti”.
La guerra del presidente è discutibile e neppure efficace Ma dire che il problema non esiste non è una risposta
PADRE LUCIANO
Non ha idea di come affrontare le vere questioni del Paese, come la povertà, per questo svia tutto sulla lotta alla droga
JILLIAN MELCHOR
IL TERRORE
Sono sempre più frequenti i casi di ammazzati per caso o per sbaglio: basta una “segnalazione”
L’ASSENZA
Lo Stato sembra non esistere: non asfalta una strada, non allaccia alle reti elettriche e non apre nuovi asili