Franco, che bella fatica inseguirti
Lettera a Battiato Ai fan che sui social si sono preoccupati per la sua salute ha risposto con ironia: aveva già previsto tutto
Caro Franco, la foto che hai fatto pubblicare sulla tua pagina Facebook (!) – foto che ti ritrae seduto sul divano di casa a leggere il giornale, con la didascalia che cita la réclame dei divani Busnelli del 1971 (“Che c’è da guardare? Non avete mai visto un divano?”) in cui comparivi col viso ricoperto di ce- mento, i capelli da Medusa e la tua espressione più impenetrabile e provocatoria – ci rincuora, ci fa sorridere e ci turba. Ci conforta saperti in piedi nella tua casa di Milo (è “la prima foto dopo la caduta”, dicono le agenzie, e siamo in zona Wenders, con te dotato di immense ali da angelo aggiustate da un tutore ortopedico).
Ignorando i gossip, riconosciamo in quella immagine su Facebook la tensione tra la riservatezza dello studioso e l’istinto per la teatralità
Ci fa sorridere perché si avverte la buona salute della tua meta-ironia (decine di volte ti hanno dato per morto); ci turba, perché la gelosia degli innamorati è tale che vede sotto la luce del consumo la concessione alla facezia che è solo dei saggi e degli illuminati.
NON CREDERE che non abbiamo la tentazione di rispettare il tuo silenzio, da quando hai preso la via dell’assenza, della sottrazione, del dico ma non dico, che qualcuno, anche tra i più intelligenti (Edmondo Berselli su tutti), ha descritto come la penombra un po’ re to ri ca che avvolge il guru che finge di tacere quanto più canta e si esibisce, come hai cantato e ti sei esibito tu prendendo il mondo sul serio e non sul serio, stando scomodo nel tuo ruolo di oracolo che pure era inevitabile cucirti addosso, unendo il tuo istinto mostruosamente teatrale alla ricerca instancabile dell’inaudito. Sì, capiamo la fortuna dell’esser svegli. Ma tu hai scritto che ancor più degna è la vita di chi diventa saggio. Sei stato tu, con le tue opere-dinamite, a darci insieme l’incanto e l’ironia, la critica a questo mondo e alle sue nevrosi e l’antidoto a ogni cinismo. Come Zarathustra, hai dato ai tuoi seguaci l’esortazione a non seguirti più di tanto (indotte al silenzio da un gesto della mano, folle mormoravano i tuoi canti più introversi durante i concerti come a messa); denudando la miseria dei furbi, dei comunicatori, dei creativi che “credono in quello che fanno”, hai innalzato i taciturni, i profondi e gli immuni al disinganno.
Così, sotto la luce della tua levità fanciullesca leggiamo la foto, ignorando i gossip attorno alla tua salute, riconoscendovi la tensione tra la riservatezza dello studioso e il puro istinto per la teatralità, insomma tra Apollo e Dioniso, che tu hai frequentato senza sosta, fino a quando di recente ti abbiamo visto cantare seduto su un catafalco da yogi, offerto sul tuo stesso altare (quasi fossero un obolo, le tue canzoni, incise nella partitura mentale di una nazione). La prima volta che ti abbiamo ascoltato tu eri già grande, eri già il Battiato incomprensibile che miracolosamente era anche popolare; ma noi eravamo nuovi alla tua anomalia, e la tua voce ricca e strana, come le concrezioni marine di Shakespeare, suscitava altri mondi
per mezzo di parole che si legavano in frasi cerebrali o semplicissime (sono queste che, in bocca a te, ci fanno ancora arrovellare), a comporre invettive velenose o liriche spiritualissime che si placavano sull’ultima nota dandoci la certezza di essere stati riportati a casa.
Prima di scartare di lato scegliendo l’inattualità, hai previsto la confusione presente, la falsa democrazia dei
social network (“La fantasia dei popoli che è giunta fino a noi Non viene dalle stelle Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena Potete stare a gal
la”), insomma hai giocato e ci hai azzeccato, nelle vesti di Profeta. Tuo malgrado, sei il mitografo della contemporaneità: per interpretare la società schizoide, hai sfornato versi ermetici, claustrofobici (li si sentiva canticchiare dai fornai, come le arie di Mozart a suo tempo); dopo la follia aspra dei sintetizzatori e la febbre da scavo dentro l’essenziale (con Mario Sgalambro), con la musica quasi sottomarina di Apriti sesa
mo, che ha dentro i canti arabi e i vagiti mistici di Santa Teresa, la ricorsività dei mantra e le finezze dei madrigali sacri, il respiro meditativo e l’elettronica, che nelle tue mani è sempre fisica e metafisica insieme, hai tratto lo sforzo di produrre senso sussurrando nella canea, di andare verso il limite dell’udibile, l’alone del silenzio, il profumo del suono.
ETICO E ESTETICO insieme, sovranamente indifferente al politicamente corretto e al politicamente scorretto (“Uno dice che male c’è A organizzare feste private Con delle
belle ragazze Per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti E perché mai dovremmo pagare Anche gli extra a dei rinco
glioniti?”), l’ipocrita mondo della politica ha tentato di usarti, salvo poi rigettarti per la frase sulle “troie in Parlamento” (sei il bambino che dice che il re è nudo). Che fatica bellissima starti dietro.
“Era magnifico quel tempo in cui eravamo collegati perfettamente al luogo e alle persone che avevamo scelto prima di nascere”, canti in Un irresistibile richiamo. Non sap-
piamo nulla di ciò che tu invece hai studiato e compreso (ne parli con mistici, monaci e “viaggiatori astrali” nel tuo documentario Attraversando il Bardo. Sguardi sull’aldi
là): la malattia, la morte e i passaggi della materia; ma è grazie all’aura magica e umanissima che la tua musica tesse attorno al suo artefice e al suo goditore, unendoli per sempre sotto la stessa costellazione sentimentale, che ti scriviamo per dirti con ragionevole certezza che non sei solo.