Guerra di classe al cinema, Dacia Maraini, Milano: natura in mostra
Iprofitti aumentano ma la fabbrica chiude. Provate a dirlo ai 1100 dipendenti francesi ivi impiegati. La risposta non può che sortire in una dichiarazione di guerra.
Lapidario, diretto, indignato al punto giusto, In guerra è quel che promette, e non esiste spettatore “pensante” incapace di apprezzarne la logica stringente laddove chi subisce un torto ed è nella ragione sia autorizzato a ribellarsi. Attrezzato di uno sguardo allertato alle ingiustizie umane ancor prima che civico- sociali, Stéphane Brizé riesce nell’intento di mostrare ciò che avviene prima della guerra (anche fisica) scatenata dagli impiegati di una fabbrica della Perrin Industries contro i loro datori di lavoro che li licenziano in massa, giustificandone così l’esplosione di violenza all’interno di una resistenza ai limiti della sopportazione. E questo “p r ima” si chiama indifferenza ai bisogni reali a vantaggio di un meccanismo economico perverso, impossibile da comprendere perché sostanziato in un paradosso.
MA A REGGEREtale perversione è una legge di mercato ormai estranea persino alla ragioneria del buon senso, figuriamoci alle esigenze delle persone. Già, quella medesima Legge del mercato
( La loi du marché) che lo stesso Brizé aveva indagato nell’omonima opera capace di incantare la Croisette nel 2015 e celebrare Vincent Lindon quale miglior attore. Ma per quanto vicino tema- ticamente a In guerra, quello era un testo cinematografico di sottrazioni, dove il dolore della frustrazione scorreva negli eloquenti silenzi dei personaggi.
Il film da ieri nelle sale è invece l’esatto opposto: un’esplosione in crescendo di furore verbale e gestuale quale vero attacco frontale contro chi nega il diritto al lavoro. E davanti alla macchina da presa, nei panni del portavoce sindacalista Laurent Amedeo, c’è ancora lui, il gigantesco Vincent Lindon che non avesse già vinto a Cannes come sopra, qui forse avrebbe meritato ancor di più il riconoscimento. Ma tant’è, così recita la legge dei festival e delle loro giurie. Questo non toglie nulla alla qualità di un lungometraggio di denuncia che leva il fiato, puntuale sull’esattezza del sentimento di “logica rabbia”, ossimoro che non dovrebbe esistere nella natura dei comportamenti umani. Come negli scenari del primo Ken Loach, il cineasta francese adotta il linguaggio della finzione per veicolare un messaggio civile e sociale di portata primaria, ritenendo “la ricostruzione verosimile” più potente del Brizé filma la “logica rabbia” di fronte all’azienda che chiude documentario per l’ovvia attrazione emozionale esercitata sul pubblico, chiamato poi alla giusta riflessione. La furiosa battaglia è combattuta soprattutto sul fronte della parola, del dibattito incisivo e martellante, come nella miglior tradizione francofona. Insomma, una guerra a picconate verbali dal ritmo serrato e infuocato e dall’inevitabile dolore per i più deboli. Nella “su a” finzione come purtroppo nella realtà a cui si ispira, In guerra è un film esemplare che vorremmo non più necessario.