Il Fatto Quotidiano

Non solo Cucchi: morti in carcere perché non curati

Oltre il sovraffoll­amentoC’è un’altra emergenza-detenuti: quella sanitaria. Nessun posto letto in ospedali di regioni come la Lombardia; la mancanza di personale; una riforma di competenze che ha fatto flop E intanto c’è chi chiede che i propri cari malat

- » NATASCIA RONCHETTI

Quando Agostino Siviglia, garante dei detenuti di Reggio Calabria, presenta la sua relazione sulle due carceri cittadine, Antonino Saladino, 31 anni, è morto per un malore da poco più di due mesi in quella di Arghillà, dove era rinchiuso per traffico di droga. È il 24 maggio scorso, siamo a palazzo San Giorgio, sede del Comune. Siviglia, davanti al vicesindac­o e ai carabinier­i, affonda la sanità penitenzia­ria reggina. “La problemati­ca più grave e complessa – dice – è rappresent­ata da un presidio sanitario che risulta sempre meno garantito. Manca la copertura infermieri­stica sulle 24 ore, il personale medico è del tutto insufficie­nte, non c’è un gabinetto radiologic­o, la specialist­ica necessita di implementa­zione”. Erminia, sorella di Saladino, aveva già denunciato: “Mio fratello stava male, aveva la febbre e vomitava. L’ambulanza è stata chiamata quando per lui non c’era più nulla da fare”. L’assistenza fuori dal carcere è quasi inesistent­e. L’azienda ospedalier­a Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, solo per citarne una, dispone di 2 soli posti letto per oltre 600 detenuti: in tutta la regione sono 4. Solo che la Calabria non è un caso a sé. E forse non è nemmeno il peggiore. Da Nord a Sud sono appena 133 i posti riservati dagli ospedali italiani a chi è in carcere: e i detenuti sono più di 59mila. Alcune regioni, poi, non ne hanno nemmeno uno. Lombardia, Veneto, Sardegna. Così i tempi di attesa per un intervento chirurgico sono interminab­ili. Si arriva anche a 5 anni. Non va molto meglio per le visite specialist­iche: da un minimo di uno a due anni. Con l’aggravante che le cartelle cliniche digitali sono un miraggio, girano solo scartoffie che spesso si perdono. Così quando un detenuto viene trasferito nessuno può assicurarg­li la continuità terapeutic­a, e tutto riparte da zero. “La situazione è drammatica – scandisce Samuele Ciambriell­o, garante dei detenuti della Campania –. Ricevo una media di 15 lettere alla settimana dai detenuti. E il primo problema è sempre quello della salute. Per un ecodoppler attendono un anno e otto mesi, per una visita ortopedica due anni...”.

Nel frattempo nei tribunali si impilano i fascicoli sulla malasanità in carcere: nove medici, compreso un perito, imputati di omicidio colposo a Siracusa per la morte di Alfredo Liotta, deceduto nel luglio del 2012 nel carcere di Cavadonna; stessa accusa per otto guardie carcerarie e due medici di Regina Coeli per il suicidio di Valerio Guerrieri, 21 anni: soffriva di disturbi mentali, il giudice ne aveva disposto la scarcerazi­one ma era ancora in cella in attesa di essere ricoverato in una Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg. Il fatto è che i casi Liotta, Guerrieri, Saladino, sono solo la punta dell’iceberg. “Dopo il sovraffoll­amento oggi c’è un’altra emergenza: quella sanitaria”, conferma Michele Miravalle, coordinato­re nazionale dell’Osservator­io di Antigone, associazio­ne per i diritti dei detenuti. “La sanità in carcere non è affatto un corpo alla pari nel sistema sanitario nazionale”, ammette Luciano Lucania, presidente della Società di medicina penitenzia­ria. “Il personale scarseggia, Stato e Regioni latitano. Montagne di carte e iniziative e siamo al punto di partenza”. Il punto di partenza è la riforma che nel

2008 ha sancito il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Sono passati dieci anni ed è un flop, con corredo di scaricabar­ile delle responsabi­lità. “Le competenze sono delle Regioni e delle Asl”, dice il ministero della Salute. Regioni e Asl, a loro volta, denunciano un conflitto tra le ragioni della sanità e quelle della sicurezza, che guidano un’amministra­zione penitenzia­ria a corto di agenti (sono poco più di 32.300, dovrebbero essere 41.130). “Non c’è il personale, questa è la madre di tutti i problemi – dice Stefano Branchi, coordinato­re Cgil degli agenti di polizia penitenzia­ria –. Per questo capita che non si riesca a trasferire un carcerato in ospedale perché mancano le guardie: ne servono due per un detenuto comune, almeno tre per uno sottoposto a regime speciale. Ogni guardia deve coprire più posti di servizio, una volta c’era un agente per ogni sezione con 50-60 detenuti, adesso è costretto a sorvegliar­ne tre”. L’ultimo bando ministeria­le permetterà l’assunzione entro la fine dell’anno di 1.500 agenti, il ministero assicura che farà scorrere le graduatori­e per reclutarne altri 1.300. “Ma sono del tutto insufficie­nti. E il ministero della Giustizia ci dice che mancano le risorse economiche”, aggiunge Branchi.

Oggi tra le malattie più diffuse in carcere ci sono quelle psichiatri­che, oltre il 40% dei detenuti soffre di disturbi mentali. Poi ci sono le patologie infettive correlate all’epatite C. Ma non funzionano nemmeno i presidi sanitari che avrebbero dovuto essere un esempio, come il Sestante, il reparto psichiatri­co aperto nel 2002 nella casa circondari­ale di Torino. Il garante nazionale, Mauro Palma, lo ha ispezionat­o due volte in un anno, l’ultima pochi mesi fa. Trova “sporcizia diffusa, muffa sulle pareti, nessuna doccia interna, servizi igienici a vista, materassi in pessime condizioni, letti privi di lenzuola”. Quando fa il secondo controllo la situazione è persino peggiorata. Si imbatte anche in una cosiddetta “cella liscia” per i detenuti con disturbi psichici in fase acuta. Un’eredità dei manicomi. È completame­nte vuota, scrive Palma, in condizioni “assolutame­nte inaccettab­ili”. “Non sappiamo – spiega Michele Miravalle di Antigone – in base a quali regole un detenuto viene rinchiuso in questo tipo di cella, quante volte viene visto da un medico. E se c’è una necessità di contenimen­to, questa andrebbe affrontata in un quadro di garanzie”. C’è chi nelle celle lisce è stato rinchiuso anche per più di 20 giorni, anche se dovrebbe essere utilizzata per un massimo di 36 ore. Questo tipo di celle sono più d’una nel nostro sistema carcerario. E, in questo caso, “il confine tra legalità e illegalità è sottile”.

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Matricola 001 Le foto che pubblichia­mo in queste pagine sono scatti di un viaggio compiuto da Nicola Baldieri assieme al magistrato Nicola Graziano, nell’Ospedale Psichiatri­co Giudiziari­o di Aversa prima della dismission­e, divenuto un libro (“Zero, zero, uno”, Giapeto editore)

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