“Quando mamma mi disse: vai in scena fregnone”
Come la mamma lo spedì sul palco con un calcione
Cento fotografie per celebrare Carlo Verdone e i suoi quarant’anni di carriera e grandi successi. Una densa carrellata di immagini, foto di backstage e ritratti, anche inediti, scattati sul set o in studio sono raccolti nel volume “Uno, dieci, cento Verdone”, nato da un’idea del fotografo Claudio Porcarelli, autore delle immagini, e dalla collaborazione con il Gruppo BANCO BPM. Di seguito la prefazione.
Questa densa raccolta di ritratti, scattati su un set o in studio, sono il frutto della mia collaborazione con il fotografo Claudio Porcarelli che da un po’ di tempo mi invitava a non disperdere tanto materiale interessante che, giustamente, doveva trovare posto in una pubblicazione di prestigio. Quando proposi alla Banca Aletti e al Banco BPM il progetto, ho trovato entusiasmo e curiosità da parte dei vertici. E così piano piano abbiamo dato il via a questo bel volume che ferma nel tempo le trasformazioni di un attore attratto dall’apparato umano che lo circonda e del quale è sempre stato un profondo osservatore ed instancabile pedinatore.
SONO SEMPRE stato curioso dei tic, delle fragilità, della mitomania, dell’assoluta mancanza del senso del ridicolo di molti tipi che incontravo o incrociavo velocemente in un bar, in farmacia, in treno o dal barbiere. Mi bastava sentirli parlare ed atteggiarsi per risalire al loro dna caratteriale. Non ho quasi mai sbagliato. E così riuscivo a catturare il loro modo di pensare ed agire di fronte ad un determinato problema. Ma per alimentare questa mia innata sensibilità non dovevo perdere mai il contatto con la gente. Perché i costumi cambiano velocemente, mutano le nevrosi, cambia addirittura la gestualità, le abitudini, dilaga la superficialità e si fa sempre più strada una sconcertante megalomania. Mio padre Mario e mia madre Rossana mi hanno sempre spinto, fin da adolescente, a guardarmi intorno e a frequentare il mio quartiere, perché se tanto mi divertivo a rifare le voci della gente comune, il mio rione (non distante da Campo de’ Fiori) era il teatro ideale per trovare spunti esilaranti.
Con tutta sincerità devo ammettere che mai avrei pensato di diventare un attore. Non era sufficiente ricevere i complimenti durante le mie prime prove recitative, come attore protagonista, in una compagnia teatrale universitaria diretta da mio fratello Luca. Il lavoro dell’attore mi sembrava un impegno per gente senza paura, piena di assoluta passione e con un perfetto e monolitico autocontrollo. Io non credevo minimamente di avere queste qualità. Timido, riservato, timoroso, credevo di essere inadeguato a presentarmi davanti ad un pubblico pagante. Il mio sogno era quello della regia cinematografica e non mi sarebbe dispiaciuto affatto diventare un bravo documentarista. Tant’è che più avanti, dopo la laurea in Lettere, ottenni il diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Ma ci fu un episodio, del tutto casuale, che mi fece acquisire un timido coraggio come attore. Era il 1973 e mancavano sette repliche alla fine di una rappresentazione teatrale universitaria su un testo di Rabelais riadattato e diretto da mio fratello Luca.
QUELLA SERA si ammalarono di influenza ben tre attori. Tutti eravamo disperati perché una quarantina di persone avevano già comprato il biglietto e stavano entrando dentro quella cantina gelida di via Cavour. Colto da inspiegabile folle coraggio dissi: “Li interpreto io tutti. Dai, preparatemi i cambi veloci dietro le quinte…”. Il resto della compagnia rimase a bocca aperta prendendomi per pazzo. Chiesi al direttore delle luci di seguire, come suggeritore, l’intero testo per ricordarmi bene le battute degli altri. Entrai in scena come Panurgo e nell’arco di venti minuti avevo già cambiato tre abiti per gli altri personaggi. Portai a termine lo spettacolo con un furore creativo ed interpretativo che sbalordì tutti. Ma in primo luogo me stesso. Quella sera ebbi la consapevolezza che dentro di me, forse, c’era un potenziale che ignoravo totalmente. Il pubblico si divertì tantissimo e il successo fu tale che quando tornarono gli attori, ancora convalescenti, non li volevamo più. Se ne andarono furibondi prendendoci a parolacce. Ma da quella sera girò la voce che un attore, un certo Carlo Verdone, interpretava a raffica un sacco di ruoli, cambiandosi costume in quindici secondi. E il teatro fu sempre esaurito.
Mio padre, venuto a conoscenza della mia impresa teatrale, mi fece un regalo: mi invitò ad una sua lezione universitaria di “Storia e Critica del Film” dove avrebbe proiettato alcuni filmati di Leopoldo Fregoli, il più grande trasformista che il teatro dei primi del novecento abbia mai conosciuto. Rimasi così colpito ed affascinato che i miei futuri spettacoli teatrali avrebbero avuto, come comune denominatore, la trasformazione continua ed incessante della mia performance in una schiera di personaggi. Non facevo altro
che entrare ed uscire in un modo e rientrare e riuscire di scena in un altro. Ma con una fatica in più: quella di dare voce, anima, gestualità e perfetta psicologia ad ogni personaggio. Uno sforzo di concentrazione spaventoso ma molto gratificante. Chiusi la mia carriera teatrale nel 1981 con “Senti Chi Parla” da me scritto, diretto ed interpretato al Teatro Eliseo di Roma. In quello spettacolo giunsi ad interpretare ventiquattro personaggi.
Dedicandomi ora solo ed esclusivamente al cinema, con qualche incursione importante in televisione, agli inizi degli anni ottanta e alla fine dei novanta, in alcune pellicole e vari sketch tornano i miei personaggi. Ovviamente rivisti e corretti nei tic e negli atteggiamenti attuali. Claudio Porcarelli ha fermato nel tempo alcune delle mie tante “anime”. Un pedinatore di anime che ama la vita e il prossimo, pur nel loro aspetto ridicolo o pietoso, al punto tale da immedesimarsi se non di annullarsi in loro.
QUESTA COLORATA ga l l er i a fotografica è dedicata a mia madre Rossana, la prima persona che credette in Carletto come attore, incoraggiandomi ad affrontare il mio primo importante e terrorizzante spettacolo teatrale nel 1977 con un calcio nel sedere. “Vai in scena, fregnone! Perché un giorno mi ringrazierai…”. E infatti non c’è giorno che non la ringrazi.
Sempre stato curioso dei tic, delle fragilità, della mitomania, dell’assoluta mancanza del senso del ridicolo di molti tipi incontrati
FONTI DI ISPIRAZIONE I miei genitori Mario e Rossana mi hanno sempre spinto a guardarmi intorno e a frequentare il quartiere
CONSIGLI CHIAVE