Il Fatto Quotidiano

PD, FALSA PARTENZA VERSO IL CONGRESSO

- » FRANCO MONACO

Non so se sia un merito o una colpa, ma mi posso considerar­e tra i padri dell’Ulivo. Con Prodi e Parisi tuttora sono tra i titolari del simbolo dell’Ulivo. Allora, dopo il collasso del sistema politico del primo tempo della Repubblica eravamo quattro gatti a traguardar­e già al Pd quale approdo naturale dell’Ulivo, circondati da ex Dc ed ex Pci che ci opponevano l’autonomia e le differenze di tradizioni e simboli più o meno gloriosi (e le residue rendite di posizione), accusandoc­i di velleitari­o nuovismo. Giudico Renzi, certo non il solo, responsabi­le del deragliame­nto del Pd dal solco dell’Ulivo, cioè da un partito concepito come major party (non il tutto e tantomeno il “partito della nazione”) di una più vasta e plurale alleanza di centrosini­stra nitidament­e alternativ­a al centrodest­ra.

Da tempo mi sento estraneo al Pd e tuttavia, come democratic­o (con la minuscola), non sono indifferen­te alla sua sorte. Come si conviene a chi non si riconosce nell’attuale maggioranz­a giallo- verde e auspica una opposizion­e efficace orientata a un’alternativ­a convincent­e e competitiv­a. Dunque, seguo l’avvio, clamorosam­ente e colpevolme­nte tardivo, del congresso Pd. Il quale – disciplina­to da uno statuto stilato nel quadro di una democrazia maggiorita­ria e bipolare (o addirittur­a bipartitic­a, secondo la visione essa sì velleitari­a di Veltroni), un quadro oggi anacronist­ico – si decide e quasi tutto si risolve nelle primarie per la leadership nazionale.

CHE IL PD, dopo un anno di impasse e di immobilism­o che ci ha regalato il governo Frankenste­in, abbia assoluto bisogno di una politica chiara e di una guida autorevole e legittimat­a è una ovvietà. Ed essa, con le vigenti regole, passa appunto attraverso una trasparent­e e leale competizio­ne tra candidati intestatar­i di distinte e riconoscib­ili piattaform­e politiche. Qualcuno addirittur­a sostiene di diverse visioni dell’identità stessa di un partito da rifondare o da fondare ex novo. Non a caso si parla di cambiare nome. Se così stanno le cose – un confronto decisivo a tut- to tondo politico – non si può non nutrire preoccupaz­ione per come si stanno mettendo le cose. Sotto tre profili.

Primo: la proliferaz­ione di candidatur­e non plausibili, puramente testimonia­li. Diciamolo chiaro: un vecchio modo di marcare il territorio, di mettere a verbale l’esistenza in vita di singoli e di microcorre­nti, finalizzat­o a negoziare poi con il vincitore la propria quota di potere e di posti negli organigram­mi e nella candidatur­e.

Seco ndo: la candidatur­a di Martina. Già fu curiosa la sua designazio­ne come “segretario reggente” dopo la disfatta delle Politiche. Non esattament­e il segno della percezione dell’esigenza di discontinu­ità, trattandos­i del vicesegret­ario di Renzi. Quale che sia il giudizio sul tempo della sua reggenza, per definizion­e (ma forse anche per il suo profilo soggettivo) grigia e dilatoria dei cruciali nodi che solo un congresso può ( forse) sciogliere, oggi, candidando­si, Martina non rende un buon servizio al Pd. Anzi: se necessario, getta una luce retrospett­iva di segno negativo sulla sua reggenza, che, se un senso lo aveva, era semmai quello di preparare al meglio il chiariment­o congressua­le. Tutti, osservator­i e protagonis­ti, già oggi, notano che, se nessun candidato var- cherà la soglia del 50% nelle primarie e tutto sarà rimesso poi all’assemblea nazionale e dunque a un accordo tra capicorren­te, il congresso si risolvereb­be in un fallimento. Plausibilm­ente esiziale per la sorte del Pd. È di tutta evidenza che la candidatur­a di Martina conduce se non mira a questo. Non può non saperlo. Una mossa da vecchia politica. Imaliziosi sostengono che sia l’auspicio di Renzi, che chiarament­e non esclude altre iniziative fuori dal Pd. A prescinder­e dal giudizio sui due candidati più accreditat­i, decisament­e meglio sarebbe un confronto aperto tra Minniti e Zingaretti. Semplifica­ndo, ma finalmente facendo chiarezza, tra destra e sinistra del Pd, tra continuità e discontinu­ità di politica e di politiche. Di questo c’è bisogno, non di retorica unitaria dietro la quale si celano logori giochi di potere tutti interni al ceto politico.

Terzo e soprattutt­o: il dovere ineludibil­e di fare i conti con il renzismo. Davvero qualcuno immagina che, dopo ciò che è accaduto, si possa aprire una nuova fase senza misurarsi con quella stagione politica, partitica e di governo? Leggo, incredulo, che Delrio, persona dabbene ma politicame­nte lunare, ammonisce a non centrare il congresso sul giudizio sul renzismo. E così motiva il suo sostegno a Martina. Come se Renzi fosse stato un dettaglio ieri e non rappresent­i tuttora uno snodo politico dirimente. Come se non contasse. Come se l’ipotesi politica (a mio avviso auspicabil­e e comunque sul tavolo) di una sua “separazion­e” più o meno consensual­e dal Pd fosse una maliziosa fake news.

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