PD, FALSA PARTENZA VERSO IL CONGRESSO
Non so se sia un merito o una colpa, ma mi posso considerare tra i padri dell’Ulivo. Con Prodi e Parisi tuttora sono tra i titolari del simbolo dell’Ulivo. Allora, dopo il collasso del sistema politico del primo tempo della Repubblica eravamo quattro gatti a traguardare già al Pd quale approdo naturale dell’Ulivo, circondati da ex Dc ed ex Pci che ci opponevano l’autonomia e le differenze di tradizioni e simboli più o meno gloriosi (e le residue rendite di posizione), accusandoci di velleitario nuovismo. Giudico Renzi, certo non il solo, responsabile del deragliamento del Pd dal solco dell’Ulivo, cioè da un partito concepito come major party (non il tutto e tantomeno il “partito della nazione”) di una più vasta e plurale alleanza di centrosinistra nitidamente alternativa al centrodestra.
Da tempo mi sento estraneo al Pd e tuttavia, come democratico (con la minuscola), non sono indifferente alla sua sorte. Come si conviene a chi non si riconosce nell’attuale maggioranza giallo- verde e auspica una opposizione efficace orientata a un’alternativa convincente e competitiva. Dunque, seguo l’avvio, clamorosamente e colpevolmente tardivo, del congresso Pd. Il quale – disciplinato da uno statuto stilato nel quadro di una democrazia maggioritaria e bipolare (o addirittura bipartitica, secondo la visione essa sì velleitaria di Veltroni), un quadro oggi anacronistico – si decide e quasi tutto si risolve nelle primarie per la leadership nazionale.
CHE IL PD, dopo un anno di impasse e di immobilismo che ci ha regalato il governo Frankenstein, abbia assoluto bisogno di una politica chiara e di una guida autorevole e legittimata è una ovvietà. Ed essa, con le vigenti regole, passa appunto attraverso una trasparente e leale competizione tra candidati intestatari di distinte e riconoscibili piattaforme politiche. Qualcuno addirittura sostiene di diverse visioni dell’identità stessa di un partito da rifondare o da fondare ex novo. Non a caso si parla di cambiare nome. Se così stanno le cose – un confronto decisivo a tut- to tondo politico – non si può non nutrire preoccupazione per come si stanno mettendo le cose. Sotto tre profili.
Primo: la proliferazione di candidature non plausibili, puramente testimoniali. Diciamolo chiaro: un vecchio modo di marcare il territorio, di mettere a verbale l’esistenza in vita di singoli e di microcorrenti, finalizzato a negoziare poi con il vincitore la propria quota di potere e di posti negli organigrammi e nella candidature.
Seco ndo: la candidatura di Martina. Già fu curiosa la sua designazione come “segretario reggente” dopo la disfatta delle Politiche. Non esattamente il segno della percezione dell’esigenza di discontinuità, trattandosi del vicesegretario di Renzi. Quale che sia il giudizio sul tempo della sua reggenza, per definizione (ma forse anche per il suo profilo soggettivo) grigia e dilatoria dei cruciali nodi che solo un congresso può ( forse) sciogliere, oggi, candidandosi, Martina non rende un buon servizio al Pd. Anzi: se necessario, getta una luce retrospettiva di segno negativo sulla sua reggenza, che, se un senso lo aveva, era semmai quello di preparare al meglio il chiarimento congressuale. Tutti, osservatori e protagonisti, già oggi, notano che, se nessun candidato var- cherà la soglia del 50% nelle primarie e tutto sarà rimesso poi all’assemblea nazionale e dunque a un accordo tra capicorrente, il congresso si risolverebbe in un fallimento. Plausibilmente esiziale per la sorte del Pd. È di tutta evidenza che la candidatura di Martina conduce se non mira a questo. Non può non saperlo. Una mossa da vecchia politica. Imaliziosi sostengono che sia l’auspicio di Renzi, che chiaramente non esclude altre iniziative fuori dal Pd. A prescindere dal giudizio sui due candidati più accreditati, decisamente meglio sarebbe un confronto aperto tra Minniti e Zingaretti. Semplificando, ma finalmente facendo chiarezza, tra destra e sinistra del Pd, tra continuità e discontinuità di politica e di politiche. Di questo c’è bisogno, non di retorica unitaria dietro la quale si celano logori giochi di potere tutti interni al ceto politico.
Terzo e soprattutto: il dovere ineludibile di fare i conti con il renzismo. Davvero qualcuno immagina che, dopo ciò che è accaduto, si possa aprire una nuova fase senza misurarsi con quella stagione politica, partitica e di governo? Leggo, incredulo, che Delrio, persona dabbene ma politicamente lunare, ammonisce a non centrare il congresso sul giudizio sul renzismo. E così motiva il suo sostegno a Martina. Come se Renzi fosse stato un dettaglio ieri e non rappresenti tuttora uno snodo politico dirimente. Come se non contasse. Come se l’ipotesi politica (a mio avviso auspicabile e comunque sul tavolo) di una sua “separazione” più o meno consensuale dal Pd fosse una maliziosa fake news.