Il Corno d’Africa, un Mediterraneo allargato
L’area è cruciale per il controllo dei traffici marittimi: il ruolo europeo e della Cina
Sembra
lontano il Kenya. Eppure, per l’analisi geopolitica, fa parte dell’“Africa italiana” (Limes) oppure del “Mediterraneo allargato” ( Is pi ), all’interno del Corno d’Africa che per l’Italia e l’Europa gioca un ruolo cruciale.
La regione, attraversata dopo l’esplosione della Somalia e la guerra ventennale tra Etiopia ed Eritrea, da fenomeni crescenti di terrorismo islamico – il gruppo sospettato del rapimento della volontaria italiana, al Shabab, può contare su circa 6000 uomini – è un cuscinetto strategico per i flussi migratori, per il commercio mondiale e per la competizione geopolitica. E non è un caso che la Cina concentri qui le sue energie – in particolare sul Kenya – che l’Unione europea abbia un suo Rappresentante speciale per il Corno d’Africa (il greco Alexander Rondos), che Gran Bretagna, Francia e Germania abbiano ripreso viaggi e commerci. Così come non è un caso che l’Italia abbia nel Corno d’Africa due missioni militari: la Eutm in Somalia, con 156 uomini e la base militare in Gibuti con 106 unità, oltre a contribuire “a chiamata” al l’o pera zio ne Ocean Shields della Nato contro la pirateria.
G IB U TI se m br a rappre sentare così l’unico presidio stabile nel fo ndam enta le stretto di Bab al Mandeb, il “collo di bottiglia” da cui passano ogni anno circa 25 mila navi che dall’est asiatico si dirigono al Canale di Suez. Circa il 40% delle forniture mondiali di petrolio passa da una zona che la crisi somala e la guerra nello Yemen rendono quanto mai instabile. Secondo i dati Sace, citati dal rapporto Ispi sul Corno d’Africa, “l’Etiopia è il quarto mercato di destinazione dell’export italiano in Africa sub-sahariana, mentre l’Italia il secondo partner commerciale, primo fornitore e terzo cliente a livello europeo”. Salini-Impregilo è impegnata in Etiopia nella costruzione delle due grandi dighe (la Gibe III, ma soprattutto la Gran Ethiopian Reinessance Dam, la più grande d’Africa) mentre in Kenya c’è l’Eni con le tre piattaforme offshore nel bacino di Lamu.
Il ruolo dell’Italia, rafforzato dal governo Renzi e dal viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli, oggi direttore delle Relazioni internazionali dell’Eni, è stato ribadito anche dal governo Conte nel corso della visita in Etiopia ed Eritrea. L’Italia ha anche istituito, dotandolo di 200 milioni di euro, il Fondo per l’Africa, gestito dalla neonata Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, che tra i 22 Paesi prioritari del suo intervento ben 9 Paesi sono dell’area di cui stiamo parlando ( Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mo- zambico). L’intervento italiano, ed europeo, è interessato a intervenire sull’origine dei flussi migratori.
CIRCA IL 20-25% dei flussi che arrivano in Libia provengono dall’area che è anche una con le più alte concentrazioni di rifugiati al mondo. Se al primo posto, infatti, secondo l’ultimo censimento dell’Unhr-Onu c’è la Siria seguita dall’Afghanistan, al terzo si trova il Sud-Sudan, al quinto la Somalia, al sesto il Sudan, al nono l’Eritrea. Il Kenya ospita oltre centomila rifugiati dal Sud Sudan e oltre 280 mila dalla Somalia. Il campo profughi di Dadaab, “la città delle spine” è una città nella città e il governo ha annunciato più volte di volerlo chiudere. Il fenomeno terroristico si nutre anche di questa situazione. Il Kenya è in quella che gli analisti definiscono una “democrazia nascente” che nel 2017 ha vissuto un grande processo elettorale. Logico che sia uno dei tasselli su cui scommettono i governi europei e, come abbiamo visto, la Cina. Lo scontro con i gruppi armati si inserisce in un contesto più generale in cui politica, economia e politiche migratorie giocano un ruolo decisivo.
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