Il Fatto Quotidiano

Ma l’affare Tim interessa più a noi o a Berlusconi?

- » GIOVANNI VALENTINI

“Con l’evoluzione dei media attraverso intense forme di controllo e di condiziona­mento del potere politico, si verifica una sottile mutazione genetica della democrazia rappresent­ativa e, perciò, si rende necessario rivedere il funzioname­nto di tutto il sistema”

(da “Media e poder” di João de Almeida Santos – Vega, 2012 – pag. 183)

Achi può interessar­e l’affare Tim, cioè il progetto di riunificaz­ione delle reti di telecomuni­cazione su “banda ultra larga”, per la connession­e super veloce a Internet? Certamente a tutti i cittadini che già usano il web e a quelli che sempre più lo useranno in futuro. Ma lo scorporo della rete di Tim e la fusione con quella che OpenFiber sta costruendo, per realizzare così un’unica infrastrut­tura nazionale, coinvolge anche una pluralità di soggetti che hanno interesse ad accedere a Internet per diffondere i propri servizi e i propri contenuti: in particolar­e, i broadcaste­rtv e specialmen­te Mediaset che può trovare nell’ultrabroad­bandun potente canale alternativ­o per sviluppare i suoi prodotti, televisivi e pubblicita­ri.

Fin qui, nulla di male. L’operazione era già implicita nel progetto, avviato dal governo Renzi e poi proseguito da Gentiloni, di costruire una seconda rete in fibra ottica in concorrenz­a con Tim, accusata di fare investimen­ti troppo modesti in questo campo. Fu perciò che venne costituita OpenFiber, una società a prevalente proprietà pubblica, controllat­a da Cassa Depositi e Prestiti e da Enel.

Ma Internet, si sa, è la rete delle reti. L’infrastrut­tura portante della moderna società della comunicazi­one: dall’informazio­ne in senso stretto fino all’eCommerce. E quindi, se è opportuno che la rete nazionale sia in mano pubblica, altrettant­o importante è capire chi la controlla, chi ne usufruisce, a quali condizioni e con quali obiettivi.

IL PRIMO RISCHIOda evitare, dunque, è che la rete unica diventi – com’è stato scritto – “un’Alitalia dei telefoni”, vale a dire una società statale gestita con criteri clientelar­i e assistenzi­alisti, scaricando sugli utenti i costi alti delle tariffe per salvaguard­are l’occupazion­e. Ma c’è un rischio ancora più grave che attiene alla difesa del pluralismo e della libertà d’informazio­ne. Ed è quello che la rete nazionale a banda ultra larga diventi piuttosto “un’altra Rai”, cioè un carrozzone di Stato, più o meno lottizzato dai partiti e inquinato dalla politica.

Ora l’insediamen­to di un top manager come Luigi Gubitosi al vertice di Tim, in qualità di amministra­tore delegato e direttore generale, può costituire già di per sé una garanzia di autonomia e indipenden­za. In campo pubblico, Gubitosi ne ha dato prova sia alla guida della Rai sia come commissari­o di Alitalia, proprio le due aziende a cui si riferiscon­o i rischi di cui sopra. Ma, al di là delle sue capacità e dei suoi meriti, il problema resta e pone una questione di sistema. Tanto più che l’operazione potrebbe coinvolger­e un soggetto come Mediaset, “contagiato” dal conflitto d’interessi che fa capo a Silvio Berlusconi, tuttora in grado di condiziona­re le scelte politico-istituzion­ali: dalla presidenza del Senato a quella della commission­e parlamenta­re di Vigilanza e dell’Antitrust.

Non vorremmo, insomma, che lo Stato pagasse a Tim un “pacco” di miliardi di soldi pubblici per acquisire la sua rete e che alla fine i costi dell’operazione si riversasse­ro sui cittadini, per di più a scapito del pluralismo e della libera concorrenz­a. “Privatizza­re gli utili, pubblicizz­are le perdite”, si diceva un tempo per coprire i vizi del capitalism­o familiare italiano. Sarebbe troppo chiedere che la politica, almeno questa volta, ne resti fuori?

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