Il Fatto Quotidiano

“Sono uno fuori dal gregge E vedo il sesso dappertutt­o”

L’INTERVISTA Un libro sul cantante morto nel 1997 : “Mi fa incazzare quando Kurt Cobain scrive un bel pezzo”

- » JOHN R. MULVEY

Per Chinaski è uscita in libreria una raccolta di interviste a Jeff Buckley, uno dei più controvers­i e rimpianti talenti della musica contempora­nea, morto nel 1997 ad appena 31 anni. Jeff è il figlio di Tim Buckley, anche lui musicista, e anche lui deceduto nel 1975 a 28 anni. Riportiamo alcuni passaggi di un’intervista del febbraio del 1994, realizzata da John R. Mulvey per il “New Musical Express”.

Da dove vieni? Sono il classico ragazzo bianco medio, in pratica ( ride). Sud della California, sono nato all’ospedale Martin Luther King di Los Angeles nel ’66. Ti percepisci ancora come un disadattat­o?

Non saprei… mi sento fuori dal gregge. Dal punto di vista musicale. Sempliceme­nte fuori dal gregge, non nel senso migliore o peggiore. E pensi che questo tratto sia presente sia nella tua personalit­à che nella tua musica? Sono la stessa cosa. Forse è perché la mia esperienza di vita è diversa da quella della maggior parte delle persone. Io non riesco a mettere a fuoco la gente, non li vedo come uomini e donne. Quando li guardo vedo… le loro madri e i loro padri. Vedo che età hanno davvero, nell’anima. Quando guardo il Presidente, o chiunque dell’industria discografi­ca, o il proprietar­io di un negozio, mi capita di vedere un bambino, dietro al bancone, con la faccia di un uomo anziano. È a quel bambino che mi rivolgo. Che cosa ti fa arrabbiare?

Di solito mi faccio arrabbiare da solo. O mi arrabbio quando vedo qualcuno che si mente da solo. O quando qualcuno è così autocritic­o, e capita di rado, da diventare gelido anche nei confronti degli altri. È gente che non vede l’ora di distrugger­e qualcosa degli altri, specialmen­te i sogni.

Sei ossessiona­to dal sesso?

Vedo il sesso dappertutt­o, perché è dappertutt­o. Non tanto l’atto in sé, quanto l’energia che circonda tutto, tutte le azioni della gente. La musica riflette molto il sesso.

È vero quel cliché per cui stare sul palco è meglio del sesso?

No. Il sesso è meglio. Il sesso è fantastico. Mi piace, come mi piace la mia pelle, come mi piacciono i miei denti e i miei sogni. Fa parte di me. È un po’ come quando la gente credente dice di poter vedere Dio dappertutt­o, e in ogni cosa. È un dono straordina­rio per l’umanità. È quell’energia che ti spinge a fare tutto ciò che fai. E non parlo della penetrazio­ne. In quel senso, i greci erano molto, molto avanti: ritenevano che ci fossero tanti aspetti dell’esistenza, come il sesso, la gioia, la gelosia e l’avidità, e di avere con queste emozioni un rapporto paragonabi­le a quello che si ha con le persone. Quindi li hanno trasformat­i in dei e dee.

Quali sono le tue influenze? …la gente che incontro. A volte mi capita di provare delle sensazioni indefinite che nella mia testa si traducono in suoni. O la musica della mia infanzia, e la musica che ho ascoltato nei momenti in cui ne avevo veramente bisogno. Per esempio, adesso ne ho bisogno. C’è la santa trinità: Beatles, Hendrix e gli Zeppelin, loro hanno avuto una portata incredibil­e.

Per esempio chi?

Ehm… Judy Garland, Edith Piaf, Bob Dylan, i Pistols, PiL, Duke Ellington. Musica folle che scaturisce dalla gioia. I Velvet, i Pixies… mi mancano. Mi fa incazzare quando Kurt Cobain scrive un bel pezzo e Mtv lo manda allo sfinimento. E porto Allen Ginsberg con me ovunque vada. L’e s s er e acclamati dalla critica o anda- re in Tv non conta un cazzo. Vorrei che la gente prendesse le distanze da quel genere di cose, facesse ricerche per conto suo e si circondass­e di musica da amare o da odiare. Perché la musica va assaggiata. Se non la assaggi non la conosci.

Prima mi hai detto di essere una calamita per freak.

È tutta colpa mia, sul serio, perché li accolgo a braccia aperte. Lasciando anche un attimo da parte la musica, è la mia identità stessa, la mia anima, ad accogliere sempre esperienze straordina­rie: a volte pericolose, a volte stupide; e mi è capitato di fare qualche cosa stupida. Come rimanere bloccato nel ghetto di Chicago, darmi alla pazza gioia per quattro o cinque ore e poi farmi beccare dalla polizia.

Una domanda che devo farti: a proposito di tuo padre… Cosa vuoi sapere?

Beh, ci sono delle nette somiglianz­e tra la tua musica e la sua. Davvero? E quali sarebbero? La tua voce, ad esempio. E il fatto che nella tua musica c’è qualcosa di molto coraggioso. Ti prendi dei rischi. È una caratteris­tica molto particolar­e. Sei d’accordo?

Beh, sì, è il mio stesso sangue. Ma non credo che si tratti delle nostre voci. Non ho preso la sua voce. Suo padre aveva quella voce. Non lo conoscevo neanche, sul serio, ci ho passato insieme sì e no una settimana. Avevo sette, otto anni, non ricordo neppure.

Ti manca qualcosa?

Non saprei dirti. A volte penso troppo. A volte sono persino felice di essere così impegnato a pensare. Ma è la cosa bella dell’esibirsi sul palco, la sua sensualità: in quel momento, o quella sera, per una volta sono davvero presente a me stesso. Niente nel passato, niente nel futuro: conta solo l’adesso. Ed è quello a cui aspirano gli esseri umani.

La cosa bella del palco, è la sua sensualità: in quel momento, o quella sera, per una volta sono davvero presente a me stesso Mio padre? Non ho preso la sua voce. Non lo conoscevo neanche, sul serio, ci ho passato insieme sì e no una settimana

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L’esordio folgorante Buckley debutta con “Grace” nel 1994, disco molto apprezzato da esperti del settore
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