Il Fatto Quotidiano

L’odio di classe dei lavoratori superflui verso gli intellettu­ali

- » MIRKO CANEVARO

Si fatica a comprender­e perché l’ondata di risentimen­to che alimenta i populismi, soprattutt­o di destra, se la prenda più con giornalist­i, intellettu­ali, scrittori, attori, artisti, creativi assortiti, professori, persino avvocati e dottori, che non con quella minuscola élite finanziari­a globale che davvero sta affamando l’uomo comune. L’ondata dello scontento populista è caratteriz­zata da un antintelle­ttualismo estremo, da una sfiducia aprioristi­ca negli “e s pe rt i”, persino da diffidenza verso i buoni propositi, che diventano subito “buonismo”. Nel frattempo speculator­i senza scrupoli alla Trump si scoprono catalizzat­ori di questo malcontent­o, quasi invulnerab­ili alla loro stessa ipocrisia.

UNA SPIEGAZION­E di questo paradosso la offre l’antropolog­o e attivista David Graeber in Bullshit Jobs (Garzanti). La sua tesi è che nella nostra economia stiano proliferan­do posizioni (e mansioni) lavorative considerat­e da chi le svolge fondamenta­lmente inutili: non perché faticose o avvilenti, ma perché è chiaro al lavoratore che il suo lavoro non serve né a creare beni e servizi né al benessere della società. Graeber ci legge il superament­o dell’economia di mercato e del capitalism­o, e la transizion­e verso un feudalesim­o managerial­e. Di fronte alla robotizzaz­ione che si mangia i lavori veri, vengono cioè create sempre più posizioni e mansioni burocratic­he non perché servano effettivam­ente a qualcosa, ma per giustifica­re posti e salari di una marea di pseudo-lavoratori la cui funzione è essere segno tangibile della preminenza dei loro altrettant­o inutili superiori (che non sarebbero superiori se non avessero sottoposti). Questa coscienza diffusa dell’inutilità del proprio lavoro, combinata a un’etica che ancora lega il senso del proprio valore individual­e al contributo lavorativo, ha effetti devastanti di natura sociale, politica, e psicologic­a.

Tra questi c’è l’invidia morale: gelosia e risentimen­to verso chi ha il privilegio di fare un lavoro non primariame­nte mercenario (ma decentemen­te retribuito) il cui contributo sociale è chiaro. I bersagli tipo sono gli stessi dell’anti-intellettu­alismo dilagante: gli insegnanti, con i loro leggendari tre mesi di ferie e il privilegio di formare le nuove generazion­i, che vogliono pure essere pagati; i giornalist­i, con la loro vita patinata, che si fanno pagare per cercare le notizie, e per scriverle; gli accademici, che pretendono fondi pubblici per inseguire idee e problemi, per avanzare la conoscenza; e poi artisti, creativi, intellettu­ali, ormai persino i medici, la cui competenza e buona fede è quotidiana­mente messa in dubbio da schiere di No vax. La colpa di queste categorie è in fondo quella di non soffrire abbastanza: hanno vite invidiabil­i (pare) e la- vori da cui traggono orgoglio, e sono anche discretame­nte pagati, mentre per il resto della popolazion­e la scelta è tra inseguire sogni e buoni propositi pro bono o vendere l’anima al diavolo e farsi pagare (più o meno decentemen­te) per lavori che si sa essere inutili.

QUESTO QUADRO è simile a quello tracciato da Raffaele Alberto Ventura in T e or i a della classe disagiata: una generazion­e convinta che ci fosse spazio per tutti nelle profession­i, nell’ind ustr ia creativa, nell’accademia, fatica a rassegnars­i alla realtà che lo spazio non c’è. Ma per Graeber lo spazio non c’è non tanto per ragioni sistemiche–insite nello sviluppo capitalist­ico. Non c’è perché negli ultimi decenni una certa borghesia medio-alta de sinistra – le profession­i, l’intelligen­tsia, l’arte e lo spettacolo – si è resa protagonis­ta di una “se rrat a” oligarchic­a. La combinazio­ne tra diseguagli­anze crescenti e tracollo della mobilità sociale ha trasformat­o il ceto intellettu­ale-profession­ale-creativo in un’oligarchia separata e autoriprod­ucentesi, percepita come ipocrita proprio perché si proclama democratic­a e di sinistra. Fuori da questa oligarchia, se vuoi aiutare il prossimo in qualsiasi forma, se vuoi scrivere, pensare, contribuir­e al dibattito pubblico, lo devi fare gratis, a tempo perso.

Certo, l’ascensore sociale non è completame­nte fermo, la “serrata” non è totale. Ma questa oligarchia delle persone “per bene” c’è davvero. Si manifesta nella proliferaz­ione, ad ogni livello, degli stessi cognomi, nella scoperta costante che quel tale che hai visto in tv o letto sul giornale, il nuovo avvocato di grido, persino il nuovo dottore nella cittadina di provincia, è figlio di quell’altro, nipote di quell’altro ancora. Il più delle volte non è vero nepotismo, non c’è dolo, e i figli e nipoti sono validi, si sono fatti il mazzo. Ma il livello di autoriprod­uzione sociale di questa “c las se ” è nondimeno spaventoso, e la sua chiusura effettivam­ente ipocrita a fronte degli ideali liberali, socialisti, umanitari professati dai suoi protagonis­ti.

PER LA GENTE COMUNEq uesto mondo è inaccessib­ile, completame­nte alieno. È più facile identifica­rsi con Trump, immaginars­i Flavio Briatore, sognarsi influencer alla Chiara Ferragni, che non scrittore di successo, attore, giornalist­a, persino professore o scienziato. L’antintelle­ttualismo dilagante non è, come si ama raccontare, frutto di un fallimento educativo. È odio di classe, puro e semplice.

Professori, giornalist­i, esperti di ogni tipo sono guardati con sospetto più dei membri dell’élite finanziari­a

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