L’odio di classe dei lavoratori superflui verso gli intellettuali
Si fatica a comprendere perché l’ondata di risentimento che alimenta i populismi, soprattutto di destra, se la prenda più con giornalisti, intellettuali, scrittori, attori, artisti, creativi assortiti, professori, persino avvocati e dottori, che non con quella minuscola élite finanziaria globale che davvero sta affamando l’uomo comune. L’ondata dello scontento populista è caratterizzata da un antintellettualismo estremo, da una sfiducia aprioristica negli “e s pe rt i”, persino da diffidenza verso i buoni propositi, che diventano subito “buonismo”. Nel frattempo speculatori senza scrupoli alla Trump si scoprono catalizzatori di questo malcontento, quasi invulnerabili alla loro stessa ipocrisia.
UNA SPIEGAZIONE di questo paradosso la offre l’antropologo e attivista David Graeber in Bullshit Jobs (Garzanti). La sua tesi è che nella nostra economia stiano proliferando posizioni (e mansioni) lavorative considerate da chi le svolge fondamentalmente inutili: non perché faticose o avvilenti, ma perché è chiaro al lavoratore che il suo lavoro non serve né a creare beni e servizi né al benessere della società. Graeber ci legge il superamento dell’economia di mercato e del capitalismo, e la transizione verso un feudalesimo manageriale. Di fronte alla robotizzazione che si mangia i lavori veri, vengono cioè create sempre più posizioni e mansioni burocratiche non perché servano effettivamente a qualcosa, ma per giustificare posti e salari di una marea di pseudo-lavoratori la cui funzione è essere segno tangibile della preminenza dei loro altrettanto inutili superiori (che non sarebbero superiori se non avessero sottoposti). Questa coscienza diffusa dell’inutilità del proprio lavoro, combinata a un’etica che ancora lega il senso del proprio valore individuale al contributo lavorativo, ha effetti devastanti di natura sociale, politica, e psicologica.
Tra questi c’è l’invidia morale: gelosia e risentimento verso chi ha il privilegio di fare un lavoro non primariamente mercenario (ma decentemente retribuito) il cui contributo sociale è chiaro. I bersagli tipo sono gli stessi dell’anti-intellettualismo dilagante: gli insegnanti, con i loro leggendari tre mesi di ferie e il privilegio di formare le nuove generazioni, che vogliono pure essere pagati; i giornalisti, con la loro vita patinata, che si fanno pagare per cercare le notizie, e per scriverle; gli accademici, che pretendono fondi pubblici per inseguire idee e problemi, per avanzare la conoscenza; e poi artisti, creativi, intellettuali, ormai persino i medici, la cui competenza e buona fede è quotidianamente messa in dubbio da schiere di No vax. La colpa di queste categorie è in fondo quella di non soffrire abbastanza: hanno vite invidiabili (pare) e la- vori da cui traggono orgoglio, e sono anche discretamente pagati, mentre per il resto della popolazione la scelta è tra inseguire sogni e buoni propositi pro bono o vendere l’anima al diavolo e farsi pagare (più o meno decentemente) per lavori che si sa essere inutili.
QUESTO QUADRO è simile a quello tracciato da Raffaele Alberto Ventura in T e or i a della classe disagiata: una generazione convinta che ci fosse spazio per tutti nelle professioni, nell’ind ustr ia creativa, nell’accademia, fatica a rassegnarsi alla realtà che lo spazio non c’è. Ma per Graeber lo spazio non c’è non tanto per ragioni sistemiche–insite nello sviluppo capitalistico. Non c’è perché negli ultimi decenni una certa borghesia medio-alta de sinistra – le professioni, l’intelligentsia, l’arte e lo spettacolo – si è resa protagonista di una “se rrat a” oligarchica. La combinazione tra diseguaglianze crescenti e tracollo della mobilità sociale ha trasformato il ceto intellettuale-professionale-creativo in un’oligarchia separata e autoriproducentesi, percepita come ipocrita proprio perché si proclama democratica e di sinistra. Fuori da questa oligarchia, se vuoi aiutare il prossimo in qualsiasi forma, se vuoi scrivere, pensare, contribuire al dibattito pubblico, lo devi fare gratis, a tempo perso.
Certo, l’ascensore sociale non è completamente fermo, la “serrata” non è totale. Ma questa oligarchia delle persone “per bene” c’è davvero. Si manifesta nella proliferazione, ad ogni livello, degli stessi cognomi, nella scoperta costante che quel tale che hai visto in tv o letto sul giornale, il nuovo avvocato di grido, persino il nuovo dottore nella cittadina di provincia, è figlio di quell’altro, nipote di quell’altro ancora. Il più delle volte non è vero nepotismo, non c’è dolo, e i figli e nipoti sono validi, si sono fatti il mazzo. Ma il livello di autoriproduzione sociale di questa “c las se ” è nondimeno spaventoso, e la sua chiusura effettivamente ipocrita a fronte degli ideali liberali, socialisti, umanitari professati dai suoi protagonisti.
PER LA GENTE COMUNEq uesto mondo è inaccessibile, completamente alieno. È più facile identificarsi con Trump, immaginarsi Flavio Briatore, sognarsi influencer alla Chiara Ferragni, che non scrittore di successo, attore, giornalista, persino professore o scienziato. L’antintellettualismo dilagante non è, come si ama raccontare, frutto di un fallimento educativo. È odio di classe, puro e semplice.
Professori, giornalisti, esperti di ogni tipo sono guardati con sospetto più dei membri dell’élite finanziaria