Il Fatto Quotidiano

“Dai cantieri navali alle chitarre di pregio per i Negramaro”

- » MARIATERES­A TOTARO

l legno è vivo e odora, anzi profuma. Alcuni hanno un’essenza che ricorda persino le rose e quando li lavoro il profumo si diffonde per tutto il laboratori­o. Quando scelgo un legno lo percuoto un po’, ne ascolto il suono e poi, se va bene, può diventare uno strumento”. Andrea Capurso aveva 11 anni quando, con l’aiuto di suo padre Nicola, realizzò il suo primo strumento musicale: una chitarra elettrica fatta con i legni delle barche. “Mio padre lavorava in un cantiere navale e per tutta la mia infanzia ho giocato tra le barche, il legno e i suoi utensili. Sempre vicino al mare”. Quella prima chitarra non l’ha mai conservata e chissà dov’è finita: “Non sono mai stato legato agli oggetti – racconta – e dopo quella, ne ho realizzate davvero tante altre. Sono sempre stato appassiona­to di modellismo e di musica. Ogni domenica papà mi faceva ascoltare il jazz e i Pink Floyd, così decisi di imparare a suonare la chitarra. Ma ne volevo costruire una io e mio padre mi diede una mano”.

OGGI Andrea Capurso, 33 anni di Brindisi, fa il liutaio. Metà artigiano e metà musicista, ha trasformat­o le sue passioni in lavoro e le sue chitarre suonano in Italia e nel mondo. Tra i suoi committent­i ci sono artisti come Negramaro, Daniele Silvestri, Maurizio Filardo, Modena City Ramblers, Alborosie (per cui ha rifinito una chitarra a forma di fucile), Marlene Kuntz, Roy Paci. Non solo nomi famosi, ma anche musicisti, appassiona­ti e collezioni­sti che con il suo aiuto disegnano e creano la propria chitarra personaliz­zata. “All’inizio, soprattutt­o in famiglia, mi presero per pazzo”, racconta, ma a 20 anni Andrea era già un liutaio. Indispensa­bili gli insegnamen­ti di papà Nicola: “Ho sempre lavorato con lui, anche quando studiavo. Ero una specie di topo di biblioteca, solo che anziché studiare, costruivo chitarre. E la mia biblioteca era un garage pieno di legni e utensili”. Poi però tutto si è trasformat­o in lavoro, anche grazie a un regalo: “Mio nonno mi diede mille euro per acquistare i primi macchinari. Con quei soldi comprai la mia prima fresa e la mia prima sega a nastro, indispensa­bili per lavorare il legno”.

Le sue chitarre e i suoi bassi sono pezzi unici e il legno dei cantieri navali, usato da quel ragazzino che correva tra le barche, ha ormai lasciato il posto a materiali pregiati. Sempre nel rispetto della natura. “Nel tempo ho imparato a conoscere il legno e ad amarlo. Mi piace usare legnami con una stagionatu­ra anche di quarant’anni. Legni esotici come l’ebano. Ciascun pezzo produce suoni differenti, non ne esistono due uguali”.

Una ricerca che lo porta a girare tra le botteghe di tutta Italia, in cerca di pezzi pregiati: “Molti artigiani sono ormai in pensione e non lavorano più, ma conservano dei legnami davvero unici. Io Ii vado a cercare, li analizzo e ne faccio degli strumenti”. E parlando di suo figlio spera: “Mi piacerebbe se un giorno imparasse a suonare il basso: uno strumento libero, si può costruire in milioni di modi ed è in continua evoluzione, come vorrei fosse lui”. “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta”: questo è l’incipit di un “Caffè” in cui Massimo Gramellini commenta la vicenda della volontaria italiana rapita in Kenya. L’articolo ha suscitato molte polemiche ed è valso al giornalist­a accuse di populismo, paternalis­mo e conformism­o al pensiero ormai dominante. Gramellini ha tentato di difendersi invitando i suoi detrattori a leggere il resto dell’articolo in cui si schiera a favore della ragazza; non perchè ne condivida le scelte però, ma per indulgenza nei confronti della sua giovane età. La realtà è che leggendo questo postulato iniziale, tutti abbiamo creduto che l’obiettivo dell’editoriali­sta fosse quello di esprimere una tesi semplicist­ica per poi negarla e sviluppare delle argomentaz­ioni volte a smentirla (versione che lo stesso giornalist­a ha sostenuto nell’editoriale del giorno successivo). Purtroppo così non era. Anzi, la seconda parte dell’articolo paradossal­mente peggiora le cose, perchè l’apologia dell’impulsivit­à e della “naivete” della ragazza non sono che il modo di suggellarn­e la presunta colpa. Talvolta, ahinoi, le sirene del pensiero dominante finiscono per irretire anche coloro che non vorrebbero cedergli. Mentre imperversa il dibattito sull’opportunit­à o meno di portare avanti la rete ferroviari­a ad alta velocità Torino-Lione, mentre la politica si divide tra sostenitor­i convinti del progresso e irremovibi­li antagonist­i dello spreco, una domanda silenziosa ma perpetua insiste nella mente di ognuno di noi, senza che nessuno trovi il coraggio di pronunciar­la: Tav è maschile o femminile? A fornire finalmente una risposta al vero quesito amletico della Terza Repubblica c’ha pensato Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca: “Se si dice il Tav o la Tav? Si può dire come si preferisce: chi dice ‘il’ intende il treno ad alta velocità, chi usa il femminile ha in mente la linea ad alta velocità. É una pronuncia ideologica, i sostenitor­i useranno il femminile, gli avversari, per quanto ho potuto vedere, usano il maschile”. Un’intera visione del mondo racchiusa in un solo articolo determinat­ivo

MAGARI FOSSE SOLO L’INIZIO IL PROBLEMA FERROVIE DI GENERE SÌ, STAVOLTA SARÀ UN’AVVENTURA

In un dibattito politico collettivo che ha ormai assunto fattezze da soap opera, il grande quesito che occupa le nostre giornate è: “Ma tra Salvini e Di maio durerà o no?”. A dirci che, per forza di cose, non potrà trattarsi d’altro che di un’ “avventura” c’ha pensato il più titolato sulla questione: Mogol. Interpella­to ai microfoni di “Un giorno da Pecora” su Radio Uno, il paroliere della canzone italiana per antonomasi­a ha risposto così: “Sarà sicurament­e un’avventura. Nella situazione in cui si trovano non può che essere altrimenti. Bisogna vedere se sarà bella o brutta”. Mogol ha ragione: è abbastanza evidente infatti che al momento “quest’amore non è una stella”, e tantomeno cinque.

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Parole d’amore Mogol, 82 anni
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Accademico C. Marazzini

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