Lui, Warhol e quei “cosi” di Depardieu e De Niro
Bernardo Bertolucci È morto a 77 anni uno dei più grandi registi di sempre: dalle polemiche sul “Tango a Parigi” ai nove Oscar de “L’ultimo imperatore”
Luogo: Hyi Tan Nippon (Cinquantanovesima Strada Est, 129), un ristorante giapponese elegante ma semplice. Andy Warhol: Ho visto il tuo film, Novecento. Non mi sono mai divertito tanto.
Bernardo Bertolucci: Ti è piaciuto? AW: Da morire. Il miglior film che abbia mai visto.
Si fatica a credere che con Bernardo Bertolucci se ne vada solo un regista raro, un autore eccelso, una star internazionale e non un pezzo di cinema. Una frazione importante di quelle sei lettere giustapposte, che sono le stesse in italiano, francese e inglese e perché l’abbiamo capito in lui e per lui, provinciale, cosmopolita, cittadino del mondo. Coniugabile, in quel tempo che ha saputo annusare meglio di chiunque altro, ma non aggettivabile, Bertolucci: refrattario a farsi attributo, insofferente alle attribuzioni, sostantivo a prescindere. Firma e sostanza. Prima di intenderne il volto, già bellissimo ragazzo, poi vissuto senza risparmio e quindi saggio senza volerlo, a profferire il suo nome, a rivolgergli il pensiero si vedono innanzitutto i film, le icone che ci lascia in dote: chi Il piccolo Buddha, chi L’ultimo imperatore, chi l’ Ultimo tango e Brando-Schneider-il burro, e il Novecento di De Niro e Depardieu, e Il conformista, e The Dreamers e le tette imperiali di Eva Green, ognuno ha un titolo negli occhi, e spesso più d’uno. Perché Bertolucci era fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i film, che sono poi sogni realizzati: “Ma filmare è vivere, e vivere è filmare”, diceva. Il secolo breve si spenge nella sua lunga malattia, il Novecento del cinema italiano, e non solo, si conclude ieri, 26 novembre 2018: Bertolucci non prende commiato in prima persona singolare, al contrario, in immaginario collettivo, domicilio nazionalpopolare e residenza autoriale insieme. Se ne va l’ultimo superlativo assoluto, il Cinema maiuscolo per ambizione e per esito, intenzione e impatto, rigore e risonanza.
E MISTERO: nato il 16 marzo del 1941, a vent’anni vince il Premio Viareggio opera prima per il libro in versi In cerca del mistero. Figlio di poeta, Attilio, e poeta a sua volta, e subito carne e intelligenza circonfusi di cultura: Mora- via, Morante, Enzo Siciliano, e Pasolini, che trasforma la passione, corta e 16mm ( Morte di un maiale, La teleferica , girati nell’avita magione di Casarola sull’Appennino), del giovanissimo cinefilo Bernardo in praticantato professionale, facendone l’assistente su Accattone . Bertolucci è onnivoro, sgobbone, perfezionista, e determinato: in mezzo a tanti grandi non china il capo, non gode di luce riflessa, ma lavora alla propria grandezza. Sua e di nessun altro. Pasoliniana è l’opera prima
La commare secca, non la seconda, Prima della rivolu
zione: Bertolucci si smarca, è battitore libero, frainteso da Moravia, devoto a Rossellini (“Non si può vivere senza Rossel lini”), ispirato da Stendhal ( La Certosa di Par
ma). Si capisce quale sarà la sua cifra: letterato audiovisivo, arredatore d’este rni, architetto di psicologie, ingegnere di spirito. Non conosce confini – nel parmigiano la denominazione d’origine, universale l’indicazione geografica – e ravvisa i limiti solo per trasgredirli: BB è l’estensione del dominio della lotta per immagini,
è la rivoluzione per altri mezzi e per il fine del Cinema. Alzando il pugno sulla sedia a rotelle eleva un’idea a potenza cinematografica: lui può.
NON VIVE, FILMA; non filma, vive. E quando muore, a 77 anni, di cancro, “la sua morte – osserva Marco Bellocchio – è anche un po’la nostra che ci avvicina al ‘finale di partita’ di una vita che è stata, quasi per tutti, insieme commedia, dramma, tragedia e farsa”. Con lui piangiamo la nostra parte migliore, per riflesso condizionato: riconosciamo a Bertolucci l’adesione massima ai propri ideali, la continuità senza soluzione tra l’essere e il fare, l’Arte, insomma. Conforme solo a se stessa – Il confor
mista, 1970, tratto da Moravia ha le misure auree del capolavoro realizzato – e incandescente, e non per dire: al rogo l’osceno Ultimo tan
go a Parigi (1972) ce lo manda la Cassazione, risoluzione inaudita, e il marchio a fuoco sulla persona e sul cineasta BB è tanto indelebile quanto non misurabile. Con
Novecento ha fatto la Storia, con L'ultimo imperatore ha conquistato nove Oscar e avocato a sé quel titolo. Non ha espunto l’amore ( Il tè nel deserto, L’assedio ), trascu
rato la forma ( Partner), dismesso la società ( La strategia del ragno, La luna, La tragedia di un uomo ridicolo), ha fatto della giovinezza un canto orfico, della gioventù un rito iniziatico, da Io ballo
da sola a The Dreamers, fino all’ultimo Io e te del 2012: passavano le primavere, eppure, continuava a filmare coetanei. Non gli sono mancati i premi – due Academy Awards, i riconoscimenti alla carriera di Venezia, Cannes e Locarno – né tantomeno gli affetti – il fratello Giuseppe scomparso nel 2012, l’adorata moglie Clare Peploe, che “l’ha incoraggiato fino all’u lt im o” ( Be ll occhio). Sopra tutto, non è mancato lui: è stato Bernardo Bertolucci per 77 anni. Non era facile.