Mumford & Sons come i Coldplay? Forse
L’opera è drammaticamente “media”: funziona giusto in streaming o sui network radiofonici
Quando si dice che il pop-rock non ha più alcun appeal nei confronti del pubblico contemporaneo, si dice una mezza verità. In realtà le band di successo ci sono. Peccato che siano quelle sbagliate. In questo senso, quella degli inglesi Mumford & Sons è una case history perfetta per questi anni. Partiti alla fine del decennio scorso come alfieri di una vaga idea di “nuova sincerità musicale” (con tanto di etichetta pubblicitaria da appiccicare sul brand “real music”, qualunque cosa volesse dire), hanno venduto milioni di dischi appiattendosi sempre più su un suono che una volta si sarebbe definito “da stadio” o “radiofonico”, ma che nei fatti è semplicemente la banalità fatta musica. Inizialmente considerati esponenti del milionesimo revival folk degli ultimi decenni, del genere suddetto hanno mantenuto esclusivamente le componenti più oleografiche e stucchevoli, annegandole in un format tanto “bombastico” quanto innocuo. Il quarto disco del gruppo vorrebbe nuovamente evocare genuinità di ispirazione fin dal titolo – Delta, parola che richiama istantaneamente radici blues – ma già la prima canzone ( 42) fa intuire che aria tira, con il suo liofilizzare l’attitudine all’inno dal sapore quasi gospel di band come Fleet Foxes e Arcade Fire. Cose già fatte e fatte meglio da altri, appunto, e persino l’archetipo al quale i Mumford & Sons si rifanno più esplicitamente (i Coldplay, e neanche quelli migliori) sembra di un altro livello. L’album viene presentato come una specie di “viaggio interiore” che segna l’inizio di una nuova fase nell’evoluzione musicale della band con il suo “mescolare rock, rap, elettronica...”. Una frase, quest’ultima, che ha smesso di essere interessante intorno all’89.
E INFATTI, all’ascolto, non significa assolutamente nulla. È il suono perfetto, anodino e drammaticamente “medio” per lo streaming e i network radiofonici (il ballatone Forever, che forse non avrebbero avuto il coraggio di incidere neanche i Foreigner). Un’ora di noia, lucidata e levigata a dovere, che rappresenta quanto di più distante da qualunque esemplare di “real music” esista in natura.