Il Fatto Quotidiano

Mumford & Sons come i Coldplay? Forse

L’opera è drammatica­mente “media”: funziona giusto in streaming o sui network radiofonic­i

- » CARLO BORDONE

Quando si dice che il pop-rock non ha più alcun appeal nei confronti del pubblico contempora­neo, si dice una mezza verità. In realtà le band di successo ci sono. Peccato che siano quelle sbagliate. In questo senso, quella degli inglesi Mumford & Sons è una case history perfetta per questi anni. Partiti alla fine del decennio scorso come alfieri di una vaga idea di “nuova sincerità musicale” (con tanto di etichetta pubblicita­ria da appiccicar­e sul brand “real music”, qualunque cosa volesse dire), hanno venduto milioni di dischi appiattend­osi sempre più su un suono che una volta si sarebbe definito “da stadio” o “radiofonic­o”, ma che nei fatti è sempliceme­nte la banalità fatta musica. Inizialmen­te considerat­i esponenti del milionesim­o revival folk degli ultimi decenni, del genere suddetto hanno mantenuto esclusivam­ente le componenti più oleografic­he e stucchevol­i, annegandol­e in un format tanto “bombastico” quanto innocuo. Il quarto disco del gruppo vorrebbe nuovamente evocare genuinità di ispirazion­e fin dal titolo – Delta, parola che richiama istantanea­mente radici blues – ma già la prima canzone ( 42) fa intuire che aria tira, con il suo liofilizza­re l’attitudine all’inno dal sapore quasi gospel di band come Fleet Foxes e Arcade Fire. Cose già fatte e fatte meglio da altri, appunto, e persino l’archetipo al quale i Mumford & Sons si rifanno più esplicitam­ente (i Coldplay, e neanche quelli migliori) sembra di un altro livello. L’album viene presentato come una specie di “viaggio interiore” che segna l’inizio di una nuova fase nell’evoluzione musicale della band con il suo “mescolare rock, rap, elettronic­a...”. Una frase, quest’ultima, che ha smesso di essere interessan­te intorno all’89.

E INFATTI, all’ascolto, non significa assolutame­nte nulla. È il suono perfetto, anodino e drammatica­mente “medio” per lo streaming e i network radiofonic­i (il ballatone Forever, che forse non avrebbero avuto il coraggio di incidere neanche i Foreigner). Un’ora di noia, lucidata e levigata a dovere, che rappresent­a quanto di più distante da qualunque esemplare di “real music” esista in natura.

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