Il Fatto Quotidiano

In piazza la sinistra orfana dei partiti: “Basta farci del male”

Artigiani, insegnanti, precari, ex operai e anche la piccola borghesia: sfila un mondo senza più una rappresent­anza

- » ETTORE BOFFANO

Com ’ è difficile oggi essere di sinistra in Italia, ma soprattutt­o in una Torino che, come quella di ieri, non esisteva più da tanti anni. Lo capisci alle 16,06 all’angolo di via Cernaia con corso Siccardi: il corteo dei 60 mila è a metà del suo cammino verso piazza Castello, la stessa delle madamin da surclassar­e. Lì, a pochi passi, il 18 dicembre 1922, le squadracce nere devastaron­o la Camera del Lavoro e uccisero 11 antifascis­ti.

L’uomo si stacca dai portici e avanza, ha ancora le mani callose dei lavoratori di una volta, prende per un braccio il deputato e segretario nazionale di Sel, Nicola Fratoianni, e ride: “Nicola, oggi è una bella giornata, no? Ma sai quanti striscioni di partiti che si richiamano al comunismo ho contato? Sei, e forse ne ho dimenticat­o qualcuno: quando la smetteremo di farci del male?”. Fratoianni ride anche lui, poi all’improvviso si fa serio e si zittisce, guardando la gente che sfila. Tacciono anche Giorgio Airaudo, storico segretario torinese della Fiom, e il suo successore Federico Bellono, che poi parlerà dal palco.

SONOi dirigenti e i militanti di ciò che rimane della sinistra: che osservano quelle facce passare, riconoscon­o e sono riconosciu­ti, stringono mani, rivedono donne e uomini di una storia comune, ricevono saluti e abbracci affettuosi e li ricambiano. E anche la gente del corteo (e quella che segue tutto da sotto i portici, come a Torino accade solo per la sfilata del 1° maggio) è così, e dice e fa le stesse cose. Tanti giovani, tantissimi, la maggioranz­a: come non ti saresti mai aspettato, come non capitava più da un tempo infinito. Poi il popolo della Valsusa, i suoi sindaci con la fascia e tutti i gonfaloni, innalzati su un unico camioncino, nessuna bandiera di partito, meno che mai quelle del M5S: salvo il finale del corteo, quello dei sei “partitini” comunisti. In mezzo la Fiom che innalza anche i simboli della Cgil sopra la testa di Francesca Re David, la segretaria nazionale. I centri sociali, per una volta, hanno rinunciato a tutto: dispersi nel movimento, si sarebbe detto una volta, attenti a non fornire provocazio­ni, a non segnare il corteo che tuttavia è gestito dalla regìa silenziosa e discreta di Askatasuna e dei suoi capi, Lele Rizzo e Giorgio Rossetto. I cartelli parlano quasi tutti di No Tav, ma anche di scuola, territorio, ambiente e sanità; contro il profitto, il mercato e la guerra; usano qualche rara battuta sulle madamin del Sì Tav, ma senza malizia o volgarità.

Perché c’è molta sinistra, quasi tutta sinistra, in quel “serpente” che ha ancora la coda in piazza Statuto e la testa già sotto il palco davanti a Palazzo Reale, dove gli interventi sono appena cominciati. A smentire quei paralleli azzardati tra una piazza romana tutta leghista e una torinese tutta a Cinque stelle, a decretare l’incapacità del Pd e dei suoi intellettu­ali nell’interpreta­re i segni dei tempi. E a far rievocare ai più vecchi il corteo torinese dell’autunno 1973 dopo il golpe in Cile o la manifestaz­ione dei metalmecca­nici per il contratto del 1979.

Giornata di sole, in riva al Po: giornata felice, ma anche senza risposte. Nei silenzi e nelle aspettativ­e di quella si- nistra che, eppure, sorride e sfila contenta. “Com’è stato possibile che si siamo lasciati scappare tutto questo?...”, mormora Airaudo prima di entrare in piazza Castello. E le stesse parole sembra di coglierle sulle labbra di quella platea così diversa: di giovani e ragazzi, di popolo valsusino, ma anche dei cinquanta-sessantenn­i che paiono ritrovarsi all’improvviso, come in tanti cortei o in tanti eventi di un tempo che fu. Precari di oggi; ex operai o in pensione o diventati piccoli artigiani e commercian­ti al minuto, ma che non hanno dimenticat­o la fabbrica, il sindacato, il partito; insegnanti, piccola borghesia. Felpe e jeans sdruciti, cappotti un po’lisi e demodée però dignitosi, ma anche Barbour e pantaloni di velluto in tono. E intellettu­ali simbolo della sinistra torinese e certamente meno scontati di un Marco Revelli o di un Luca Mercalli, come l’americanis­ta Gian Giacomo Migone.

PERCHÉ le domande della sera, mentre tutto torna allo shopping natalizio, rimangono sempre le stesse. Potrà mai trasformar­si davvero in una piattaform­a politica la sola battaglia contro un treno veloce? E per chi potrà mai votare la sinistra di questo 8 dicembre 2018 torinese? Non lo sa Alberto Perino, uno dei leader No Tav della Val di Susa, che dal palco chiede ai Cinque stelle di non tradire e avverte la Lega: “S ia m o pronti a metterci davanti alle loro ruspe”. Ma non lo sa neppure Sergio Chiamparin­o, il governator­e piemontese del Pd che punta a farsi rieleggere trasforman­do, a sua volta, il Sì Tav in una piattaform­a politica e che risponde ai 60 mila di piazza Castello citando il teorema di Ezio Mauro sulle manifestaz­ioni parallele di Roma e di Torino. Proprio mentre un ragazzo si ferma sotto le finestre del suo ufficio nel palazzo della Giunta regionale di piazza Castello e innalza un cartello: “Ch ia mp ar in o, guarda quanti siamo”.

GIORGIO AIRAUDO

Com'è stato possibile che in questi anni ci siamo lasciati scappare tutto questo?

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Fotogramma Precedenti In piazza contro il colpo di Stato in Cile, nel 1973
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