La globalizzazione ci porta alla guerra? Il Prodi che ci serve
Romano Prodi non è un No euro, un No global, un No Tav, un No vax. Ha battuto due volte Silvio Berlusconi alle elezioni, ha governato a lungo l’Italia e l’Europa, ha guidato l’Iri per otto anni, è un economista con una vasta esperienza internazionale, in viaggio verso gli 80 anni. Insomma, varrebbe la pena di ascoltarlo quando parla del mondo anziché cercare di carpirgli l’ultima sapida battuta sul congresso del Pd. Qualche settimana fa ha detto: “Si accusa l’Europa perché non fa nulla. Quando faceva politica la gente non era contro l’Europa: la possiamo salvare se le prossime elezioni saranno politiche. Se ci saranno elezioni europee con una battaglia politica chi vince avrà una delega europea, non nazionale. E c’è bisogno di Europa perché Cina e Usa ci massacrano”. Ci massacrano: il linguaggio di Prodi riflette il clima di guerra in cui si è cacciato il mondo. Si scrive competizione globale, si legge nazionalismo. Gli approssimativi leader politici che ci incitano a essere competitivi fingono di non sapere che siamo in un gioco infame in cui se un altro è più competitivo di te sei morto. Ci massacriamo, tutti contro tutti.
Dalle colonne del Corriere della Sera Wolfgang Munchau avverte gli italiani: “Berlino e Parigi vi tagliano fuori”. La competizione globale stratifica i nazionalismi. C’è chi predilige la guerra dei mondi, chi quella di quartiere. Tutti immaginano schieramenti e strategie. Europa contro Cina e Usa? Francia e Germania contro Italia? Lombardia contro Campania? Quest’ultima antica e ridicola guerra dei bottoni si rinnova nel virile confronto tra i due vicepremier fratelli-coltelli. Quale che sia il livello prescelto, è inevitabile. Se si compete per chi mangia di più può anche funzionare. Ma se c’è in palio la vita o la morte economica di nazioni, popoli o individui, finisce male. Può essere guerra mondiale o condominiale, guerra civile o bianchi contro neri, ma guerra sarà. Gli apprendisti stregoni della competizione hanno evocato un mostro che non sanno controllare. ADESSO DONALD TRUMP si è accorto che spendere 716 miliardi di dollari all’anno per armare gli Stati Uniti “è folle!”, così ha twittato. Nell’era della globalizzazione – che nelle premesse dei suoi sacerdoti pacificava il pianeta costringendo tutti i selvaggi (anche con cravatta) a deporre il fucile per competere su qualità e costi dei prodotti – un politico rozzo come Trump è costretto a invocare un “significativo alt alla grande e incontrollabile corsa alle armi” che lo vede impegnato con Cina e Russia.
Prodi ha spiegato domenica scorsa a Paolo Bricco sul Sole 24 Ore che la coazione a competere tutti i giorni ha determinato nel mondo due fenomeni, “il desiderio di autorità” e una “inedita fase di prevalenza della politica sulla economia”. Il capitalismo americano è appeso agli annunci sorprendenti di Trump. In Cina, “Xi Jinping ha definito le linee di concentrazione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolineando il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico”.
Con buona pace dei liberisti all’italiana, pagati a vario titolo dagli industriali perché servivano ad abbattere i sindacati, bisognerà pur dire una buona volta che i sindacati sono sconfitti e il liberismo ormai serve solo a certi economisti o sedicenti tali per elemosinare il gettone ai convegni confindustriali. La libera competizione globale è una figata solo se vinci, anche perché se perdi è per sempre. Trump, Putin e Xi infatti, per non sbagliare, competono con le cannoniere, bene che vada con i dazi. È ora di pensare a una via d’uscita più elegante della guerra. Con urgenza: c’è il funerale della globalizzazione e l’Europa non sa cosa mettersi.