Il Fatto Quotidiano

La globalizza­zione ci porta alla guerra? Il Prodi che ci serve

- » GIORGIO MELETTI Twitter@giorgiomel­etti © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Romano Prodi non è un No euro, un No global, un No Tav, un No vax. Ha battuto due volte Silvio Berlusconi alle elezioni, ha governato a lungo l’Italia e l’Europa, ha guidato l’Iri per otto anni, è un economista con una vasta esperienza internazio­nale, in viaggio verso gli 80 anni. Insomma, varrebbe la pena di ascoltarlo quando parla del mondo anziché cercare di carpirgli l’ultima sapida battuta sul congresso del Pd. Qualche settimana fa ha detto: “Si accusa l’Europa perché non fa nulla. Quando faceva politica la gente non era contro l’Europa: la possiamo salvare se le prossime elezioni saranno politiche. Se ci saranno elezioni europee con una battaglia politica chi vince avrà una delega europea, non nazionale. E c’è bisogno di Europa perché Cina e Usa ci massacrano”. Ci massacrano: il linguaggio di Prodi riflette il clima di guerra in cui si è cacciato il mondo. Si scrive competizio­ne globale, si legge nazionalis­mo. Gli approssima­tivi leader politici che ci incitano a essere competitiv­i fingono di non sapere che siamo in un gioco infame in cui se un altro è più competitiv­o di te sei morto. Ci massacriam­o, tutti contro tutti.

Dalle colonne del Corriere della Sera Wolfgang Munchau avverte gli italiani: “Berlino e Parigi vi tagliano fuori”. La competizio­ne globale stratifica i nazionalis­mi. C’è chi predilige la guerra dei mondi, chi quella di quartiere. Tutti immaginano schieramen­ti e strategie. Europa contro Cina e Usa? Francia e Germania contro Italia? Lombardia contro Campania? Quest’ultima antica e ridicola guerra dei bottoni si rinnova nel virile confronto tra i due vicepremie­r fratelli-coltelli. Quale che sia il livello prescelto, è inevitabil­e. Se si compete per chi mangia di più può anche funzionare. Ma se c’è in palio la vita o la morte economica di nazioni, popoli o individui, finisce male. Può essere guerra mondiale o condominia­le, guerra civile o bianchi contro neri, ma guerra sarà. Gli apprendist­i stregoni della competizio­ne hanno evocato un mostro che non sanno controllar­e. ADESSO DONALD TRUMP si è accorto che spendere 716 miliardi di dollari all’anno per armare gli Stati Uniti “è folle!”, così ha twittato. Nell’era della globalizza­zione – che nelle premesse dei suoi sacerdoti pacificava il pianeta costringen­do tutti i selvaggi (anche con cravatta) a deporre il fucile per competere su qualità e costi dei prodotti – un politico rozzo come Trump è costretto a invocare un “significat­ivo alt alla grande e incontroll­abile corsa alle armi” che lo vede impegnato con Cina e Russia.

Prodi ha spiegato domenica scorsa a Paolo Bricco sul Sole 24 Ore che la coazione a competere tutti i giorni ha determinat­o nel mondo due fenomeni, “il desiderio di autorità” e una “inedita fase di prevalenza della politica sulla economia”. Il capitalism­o americano è appeso agli annunci sorprenden­ti di Trump. In Cina, “Xi Jinping ha definito le linee di concentraz­ione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolinea­ndo il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico”.

Con buona pace dei liberisti all’italiana, pagati a vario titolo dagli industrial­i perché servivano ad abbattere i sindacati, bisognerà pur dire una buona volta che i sindacati sono sconfitti e il liberismo ormai serve solo a certi economisti o sedicenti tali per elemosinar­e il gettone ai convegni confindust­riali. La libera competizio­ne globale è una figata solo se vinci, anche perché se perdi è per sempre. Trump, Putin e Xi infatti, per non sbagliare, competono con le cannoniere, bene che vada con i dazi. È ora di pensare a una via d’uscita più elegante della guerra. Con urgenza: c’è il funerale della globalizza­zione e l’Europa non sa cosa mettersi.

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