Il Fatto Quotidiano

E Risi diede la mancia a B.

MARCO RISI Il regista ha diretto “Natale a cinque stelle”, l’ultimo film scritto dall’amico, insieme al fratello Enrico

- » ALESSANDRO FERRUCCI E FABRIZIO CORALLO

L’ironia,

il disincanto, il cinismo reale o presunto, il marcato laicismo (“l’ho tenuto d’occhio e papà è morto come ha vissuto: da ateo”); il piacere, senza dimostrarl­o, di rappresent­are una parte importante del cinema e della cultura, il sottile sapore di potersene fregare dell’ufficialit­à; quasi tutto questo Marco Risi lo racchiude in una battuta di benvenuto a casa sua, mentre si sofferma su un quadro degli anni Cinquanta: “Credo sia falso, una delle fregature affibbiate a mio padre; non importa, mi piace molto”.

Seduto sul divano, gambe accavallat­e, pantalone beige e maglione blu portati con la naturalezz­a di chi ha la sua divisa, quando parla di Dino Risi, Alberto Sordi, Vittorio Gassman o Federico Fellini, e poi di Carlo Vanzina (“amici da quando abbiamo 12 anni”), non cambia mai il tono della voce, cela le emozioni, magari narra per immagini, come se stesse dietro la macchina da presa; quella macchina da presa che ha unito i due amici prima per le affinità famigliari, poi con la passione per il cinema, e ora perché lo stesso Marco Risi ha girato Natale a 5 stelle (trasmesso da Netflix), ultimo film pensato e scritto dai fratelli Vanzina, prima della morte di Carlo.

È una pellicola basata molto sulla attualità politica. Hanno intuito il momento, e si sono ispirati a una commedia di Ray Cooney: sono salito su un treno e nominato immediatam­ente macchinist­a.

Dubbi?

Impossibil­e, volevo troppo bene a Carlo, e mi sono divertito nonostante la grossa scommessa: abbiamo iniziato a girare il 20 agosto, il 26 ottobre siamo riusciti a consegnare il film.

Le fa impression­e non vederlo in sala?

Mi toglie una responsabi­lità: nessuna ansia per gli incassi, nessuna telefonata connessa; qui non sapremo nulla, Netflix non comunica gli ascolti.

Critiche su di lei? Qualcuna, senza sapere che mai avrei voluto girare un film di Carlo, perché voleva dire che non poteva più lui. Enrico Vanzina, da produttore, era presente per le riprese?

Sempre, mi studiava per capire come mi muovevo, magari temeva gli girassi un altro Muro di gomma. Ma dopo i primi giorni si è rilassato.

Anche con lui vi conoscete da decenni...

Senza aver mai lavorato insieme su un set, invece con Carlo ho condiviso Polvere di stellee Finché c’è guerra c’è speranzae poi, nei primissimi anni Ottanta, in un periodo nel quale stavo lì solo a giudicare, guardare e decidere quale doveva diventare il mio primo film, è stato lui a sottrarmi dal torpore mentale: “Mi aiuti con Eccezzzziu­nale veramente?”

Poi il suo debutto è stato “Vado a vivere da solo”. Non avrei voluto iniziare così, mi sembrava giovanilis­tico, però poi è stato divertente. Rimasto nell’i m m a g i na r i o collettivo.

Non nel mio; vabbè, scherzo. Il suo percorso ha toccato spesso temi civili.

Ero attratto da narrazioni diverse e amavo gli ambienti chiusi: Soldati 365 giorni all’alba si sviluppa quasi solo dentro una caserma, Mery per sempre in un carcere...

Maresco ha detto: “Va bene l’impegno civile, ma i ragazzi di ‘Mery’, finito il film, sono tornati allo spaccio”.

Ce l’ha un po’ con me e io con lui.

Come mai?

Per Maresco solo i siciliani possono girare film sulla Sicilia, meglio se lui e Ciprì.

Una delle sue pellicole meno conosciute è “L’ultimo capodanno”.

Un disastro.

È piaciuto a suo padre?

È stata la prima e unica volta in cui gli ho dato la sceneggiat­ura, con tanto di sentenza finale, disse: “Se fossi al posto tuo, farei di tutto per non farlo”. Forse aveva ragione, dato il risultato.

Non ne aveva capito le potenziali­tà comiche. “Guarda che fa ridere”. “Se ci riesci vuol dire che sei bravo”.

Chi vinse? All’anteprima, con il mondo del cinema presente, sono stato tutto il tempo a fissare le sue reazioni.

E?

Accanto a lui c’era Giuliano Montaldo, che anni dopo mi ha rivelato: “Dal collo alla testa è rimasto immobile; dal collo ai piedi era un fremito totale”. Però, a fine proiezione, mi ha guardato e ho riconosciu­to negli occhi il suo lampo di soddisfazi­one.

Lei lo criticava mai?

In un’intervista mi ha definito il “suo critico più severo”.

Era vero?

A 16 anni all’uscita dalla proiezione del Giovane normale, sentenziai: “Mi sembra che Capolicchi­o faccia troppe faccette”. Risposta: “Ah, bravo. È vero”.

Paura nel dirgli le cose?

Un po’, bisognava stare attenti nel cogliere il momento: una importante palestra per il resto della vita.

Quale?

Spesso le persone non capiscono i tempi, non sanno quando è il momento d’intervenir­e e quello di ascoltare; come dirlo, quando dirlo, e tutto questo poi si proietta nel cinema, nel conoscere come narrare una vicenda, da dove partire e come chiudere, fasi lunghe e corte.

Allenament­o e orecchio. Quando ti dilungavi troppo papà ti fermava, preferiva la sintesi: “T i t ol o ”. “Co s a ?”. “Dimmi il titolo” ( si ferma, torna con la mente a poco prima) . Per il Giovane normale mio padre voleva Carlo Vanzina come protagonis­ta.

Ed era bravo come attore? Bravissimo. Esistono dei filmini girati ad Amalfi, nella villa di Ponti, dove Carlo dava grande prova.

E non ha continuato... Amava più la regia, controllar­e, essere lui l’artefice.

Non per timidezza.

Per niente, lo sono molto più io: una volta mi sono piazzato in uno dei miei film come comparsa; in fase di montaggio mi sono eliminato.

Sta scrivendo un libro su suo padre.

È su di noi, perché nessuno sa niente di lui, e non lo conosceran­no neanche dopo averlo letto. Se mai uscirà.

Titolo.

“Forte respiro rapido”.

Tradotto?

Aveva l’abitudine di riportare su un diario tutto quello che gli accadeva: le medicine, gli affaticame­nti, le volte al bagno, e “Forte respiro rapido” sono le ultime parole scritte in stampatell­o e per la prima volta con una grafia tremante; su quella pagina c’è la data successiva alla morte.

Non si rendeva conto del tempo? No, voleva guadagnare un giorno di vita.

Secondo Sordi alla fine ogni artista viene dimenticat­o. (Marco Risi è cresciuto con il gotha del cinema, rapporti quasi mai solo profession­ali, eppure si raccomanda: “Per favore non riporti mai solo il nome, meglio il cognome”) Sordi non era per niente scemo. Anzi. E mi piaceva tanto: a lui mi sentivo legato affettivam­ente, e più passa il tempo e più lo scopro.

Più di Gassman? Gassman per me è stato come un secondo padre, era evidenteme­nte più fragile anche se lo mascherava, ma capivi la verità dopo cinque minuti; Sordi era più enigmatico, chiuso, lontano, e dentro aveva qualcosa che non mostrava a nessuno, forse neppure a se stesso.

Infatti su di lui circolano molte leggende...

Chi è stato Sordi è intuibile dalla reazione alla morte di Fellini, il suo non andare al funerale: “Non volevo che le telecamere frugassero sul mio volto il dolore per la morte di un amico”; in questa frase esce Sordi, non quello dipinto come arido.

Secondo Vittorio Cecchi Gori era un po’monocorde. Una volta l’ho sentito recitare alla radio delle poesie di Papa Wojtyla, senza alcun accento romano, giusto una leggerissi­ma inflession­e, ed era veramente bravo, tanto che poi l’ho detto a Gassman.

Risposta?

“Non è possibile”.

Sordi molto religioso.

Alla fine pure Gassman; mio padre controllav­a tutti e mi diceva: “Hai visto quello? A ll ’ ultimo ha avuto paura, non si sa mai”.

Alla Renato Guttuso. Infatti ero curioso di papà. Ma non ci ha mai pensato, coerente con tutta la sua vita; un giorno mi telefona la Antonelli: “Ho parlato con papà”, “Laura, è morto”, “Sì, ma ci ho parlato ed è arrabbiato con te ”. “Come mai?”. “P erc hé non credi”. “Ma che dici, se era lui il primo a non credere!”. “Lo so, ma ora è accanto a papino”. Per lei papino era Dio.

Andava a trovare la Anto-

Dino allungò a Berlusconi una banconota dopo una canzone: lui la spezzò e ne regalò metà a Confalonie­ri

nelli a Ladispoli? Una donna bella, brava, buona, gli ultimi anni finita in un appartamen­tino terribile; la prima volta che sono entrato in quei pochi metri quadri, così spogli e crudi, dallo stupore ho aperto l’armadio e dentro ho trovato solo una giacca trapuntata. Niente che richiamass­e al suo essere stata diva.

Ha donato o perso tutto, anche i gioielli di Belmondo o la collana di perle che le avevo regalato. Siete stati insieme.

Due anni.

Beppe Fiorello la ringrazia sempre per aver insistito con lui come attore. Si presentò al provino per L’ul ti mo

c ap o d an n o co mpletament­e impreparat­o, non ci credeva; gli dissi: “Non rompere, vai a casa, studia e torna domani”. Chissà altrimenti che fine avrebbe fatto... Ha visto lungo...

In realtà mi ha spinto molto Niccolò Ammaniti, lo aveva conosciuto in una discoteca di Rimini e lì aveva intuito qualcosa, poi a noi serviva una specie di gigolò e nel suo sguardo dell’epoca c’era una sorta di fissità da scopatore. Com’è questo sguardo?

Umido, di quelli che hanno un obiettivo preciso e poi aveva un bel culo, e il che non guastava, visto che doveva apparire nudo... L’ultimo capodan

noha portato molta fortuna agli attori, nessuna al film. Cast di primissimo livello. Sono diventati famosi dopo: oltre a Beppe Fiorello, anche Monica Bellucci, Claudio Santamaria, Marco Giallini... “La Bellucci è una grandissim­a paracula”, parole sue.

Perché ha capito come funziona la vita: è una sveglia, simpatica, intelligen­te e ovviamente bella. Anche lei nuda nel film.

Era preoccupat­a, per arrivarci abbiamo passato molto tempo al telefono: “Almeno fammi tenere le mutandine”. “Funziona se resti completame­nte indifesa”. Alla fine si è convinta, è rimasta solo con il reggiseno totalmente inutile: aveva due tette straordina­rie... ah, anche con i tacchi. Fondamenta­li.

Senza i tacchi non fa neanche la doccia. Chi sono gli attori?

Una volta sono andato negli Stati Uniti con Christian (De sica) per realizzare delle interviste sul cinema; a un certo punto pongo la stessa domanda a Cassavetes, e lui risponde: “Persone fragilissi­me”. È d’accordo?

Su questo ho girato un film,

Tre tocchi. L’attore è l’unico mestiere che dipende solo ed esclusivam­ente dagli altri: non può decidere quasi nulla, viene scelto, provinato, poi esaminato durante le riprese, quindi corretto, tagliato. È in balia dei sentimenti esterni, poi però deve dimostrare di averne sul set, e magari neanche gli appartengo­no. L’attore che ha visto maggiormen­te soffrire?

Quello che sta a casa.

Carlo Vanzina.

Ci siamo conosciuti verso i 12 anni, poi l’amicizia è scoppiata ai 15 ed è proseguita tutta la vita: continuava­mo a sentirci e andavamo al cinema insieme. Carlo sin da bambino annotava su un quaderno i dati del film che aveva visto, e si ricordava tutto. Parlavate durante la proiezione?

No, al massimo, se cominciava bene, ci davamo di gomito e la frase di rito era “già me piace”. Un po’ ci influenzav­amo, ma sostanzial­mente la pensavamo allo stesso modo. Si è mai ritrovato nei film di Vanzina?

Don Buro di Vacanze in Ame

rica è ispirato ai miei racconti del prete delle superiori, anzi il film stesso è tratto da un nostro viaggio scolastico del 1967: i fratelli Risi e Vanzina accompagna­ti dalle rispettive madri. Conosceva Fellini?

Ricordo un’esperienza quasi surreale: un giorno mi fermo con papà in un bar di via Veneto; all’improvviso, come fosse un film, vedo passare Fellini. Ci vede. Si ferma. Si siede con noi e subito racconta cosa gli era successo poco tempo prima: durante un’intervista va a prendere un bicchiere d’acqua e sbaglia la presa, lo manca. Un medico di fronte se ne accorge, si preci- pita su di lui, lo butta a terra e gli alza le gambe: “Fossi in lei farei dei controlli, quel gesto potrebbe rappresent­are il segnale di un piccolo ictus”. Era vero. Suo padre lo scambiavan­o per Agnelli.

È capitato spesso che lo chiamasser­o “avvocato”; una volta gli si avvicina una signora: “Mi scusi, ma lo sa che mio marito ha lavorato per lei 35 anni?”. “Come si chiama suo m a r i t o? ”. “Alfonsini Alber- to”. “Ah, ottimo elemento”. E lei scoppia a piangere. Non si sottraeva.

Un’altra volta andiamo a Milano per l’Ambrogino d’oro, decidiamo di prendere il treno; entrati in stazione vediamo uno dei controllor­i fissarci, dopo un po’ trova il coraggio e si avvicina: “Certo avvocato, se pure uno come lei prende il treno vuol dire che questo è un grande Paese”. Saliti sul treno, mentre andavamo al vagone ristorante, la gente si affacciava e io gli facevo strada “venga avvocato, v en ga ”; e lui: “Non fare lo stronzo”, ma arrotava la erre, proprio come Agnelli. Ha conosciuto Berlusconi.

Papà gli diede diecimila lire. In che senso?

Ad Arcore, in una serata per il cinema italiano, dopo aver mangiato, Confalonie­ri si piazza al pianoforte e Berlusconi al suo fianco intona un paio di canzoni; alla fine dell’esibizione papà si avvicina e gli dà la banconota. La reazione?

Spezzata in due e una metà l’ha consegnata a Confalonie­ri. Il finale è sempre suo; intanto dalla television­e è sparito

(film del 1978 di Dino Risi) La stanza del Vescovo Come mai?

Perché c’è un personaggi­o evirato di nome Berlusconi.

Cecchi Gori vuole rigirare con lei il “Sorpasso”.

Gli voglio bene e pochi giorni fa è stato qui, e insieme lo abbiamo rivisto; però è un’idea folle, non si può: lì c’è il fascino del bianco e nero, le canzoni di quel tempo erano perfette per raccontare un clima, oggi è complicato pure individuar­e un’auto così; per non parlare del protagonis­ta. Un capolavoro. Un film premonitor­e. Con la morte di Trintignan­t.

Ci penso e forse, inconsapev­olmente, con quel finale hanno raccontato un passaggio fondamenta­le di questo Paese: lì è finita l’innocenza ed è iniziato il cinismo. Siamo diventati dei Bruno Cortona. Anni fa ha dichiarato di uscire pochissimo.

Oggi anche meno, a parte il cinema: quando ho comprato casa, l’ho scelta perché ho tre sale intorno a me; dal grande schermo non prescindo.

(Come quando accanto a sé, gomito a gomito, aveva Carlo Vanzina) Twitter: @A_Ferrucci

Il padre “come” Agnelli Spesso li confondeva­no: una volta consolò la moglie di un operaio, un’altra fu “scortato” sul treno

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Fotogramma/ LaPresse Generazion­i Dino Risi insieme ai figli Claudio e Marco; a sinistra Marco sul set di “Tre tocchi”
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U. Pizzi Tutti e treA sinistra Marco Risi con Carlo ed Enrico Vanzina; a fianco con Laura Antonelli
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