Il Fatto Quotidiano

Espulsioni e deportazio­ni, la via “sinistra” di Sanchez

Nell’enclave spagnola in Marocco

- » PIERFRANCE­SCO CURZI

Gabriel ha 22 anni ed è arrivato a Ceuta dalla Guinea Conakry dopo un viaggio lungo due anni. Il 26 luglio scorso, assieme ad altri 602 migranti, per lo più subsaharia­ni, è riuscito a valicare i due reticoli, alti sei metri e lunghi otto chilometri, che sigillano l’enclave spagnola dal Marocco. La più grande evasione al contrario che si ricordi tra Ceuta e Melilla, l’altra città iberica autonoma incastonat­a nella costa mediterran­ea. Africa ed Europa, inferno e purgatorio. Addosso, sulle gambe di Gabriel, le unghiate del filo spinato penetrato nella carne. Lo incontriam­o davanti al centro d’accoglienz­a Ceti (Centro temporaneo per i migranti) e da lì, in autobus, arriviamo fino al varco frontalier­o occidental­e di Benzù, chiuso dal 2004. Sopra si erge, maestosa, la montagna della Mujer muerta, come la definiscon­o gli spagnoli di Ceuta: “Ci siamo nascosti per mesi nella Grande forêt (il bosco tra Fnideq e Castillejo in territorio marocchino a pochi chilometri dalla frontiera), poi quella notte il grande salto. Avvicinand­oci verso la recinzione dal bosco, ci hanno consigliat­o di vestirci di scuro e di non alzare mai gli occhi al cielo quando sentivamo gli elicotteri della Guardia Civil, altrimenti avrebbero notato gli occhi e i denti bianchi. Da allora vivo dentro il Ceti in attesa del lascia-passare per la penisola. A casa, in Guinea, ho solo due sorelle, i genitori sono morti, se mi dovessero riportare lì sarebbe una sconfitta”.

IL CETI è vicino ad un circolo di equitazion­e. Il recinto dello sgambatoio guarda sopra le baracche del Centro temporaneo dove i migranti possono uscire dalle 8 e rientrare entro le 23. Si avvicina un ragazzo del Camerun, Steven: “Sono mesi che aspetto il lascia-passare. Ormai non vado quasi più in città, che è a tre chilometri a piedi da qui. Giriamo come fantasmi, la gente ci schifa e la polizia non è buona con noi. Ogni scusa è buona per fermarci e, in molti casi, attaccarci”.

“Mi vida la déjé entre Ceuta y Gibraltar…”, “ho lasciato la mia vita tra Ceuta e Gibilterra” canta Manu Chao nella sua storica hit dal titolo emblematic­o, Clandestin­o. Per la prima volta, proprio nel 2018, la Spagna ha superato l’Italia per numero di sbarchi dalle coste nordafrica­ne: dal 1° gennaio alla fine di novembre oltre 55mila persone sono state registrate dal governo spagnolo, contro le 22mila in Italia. Con la rotta libica resa impraticab­ile dal blocco delle partenze dei barconi e circa 700mila richiedent­i asilo ingabbiati, il flusso di disperati si sta spostando ad ovest, attraverso Algeria e Marocco.

Il clamoroso tentativo di fine luglio è stato uno smacco per le super-attrezzate autorità frontalier­e spagnole, dotate di telecamere termiche capaci di individuar­e la presenza di persone a chilometri di distanza. Un episodio eclatante, al punto da spingere il premier socialista Pedro Sanchez, in sella dal 2 giugno 2018, a praticare espulsioni e respingime­nti in Marocco: “Il governo di Madrid ha mostrato la sua vera faccia – attacca Reduan Halid, attivista per i diritti umani e membro della piattaform­a Alarm Phone –, riesumando un vecchio accordo del 1992 siglato dall’allora premier Felipe Gonzalez e dal re Hassan II: consente le deportazio­ni di

LA DENUNCIA DI “ALARM PHONE”

Gli attivisti per i diritti umani: “I socialisti hanno riesumato un accordo del 1992 firmato da Gonzalez col re Hassan II”

CHI TENTA LA FUGA

“Per me conta la libertà, ogni notte provo a superare i controlli. Ieri il mio amico Hamid, 15 anni, ci è riuscito”

migranti in caso di presunte violenze. Il 26 luglio le autorità hanno parlato di una ventina di agenti e militari feriti, di calce viva lanciata dai migranti contro di loro. I feriti più gravi sono stati tra i migranti, con almeno due morti. Non era mai successo prima. Governo progressis­ta? Tutto il contrario, le espulsioni, i dinieghi per le domande di asilo sono aumentati, i controlli in mare sono ferrei e i naufragi nel tratto di mare tra Ceuta-Tangeri e Algeciras sono quotidiani”.

OLTRE i migranti africani crescono i marocchini in fuga da un Paese dove non ci sono lavoro e futuro col governo che sta rimettendo obbligator­ia la leva militare a 14 anni. I subsaharia­ni passano al Ceti (in questi giorni oltre 900 per una capienza di 512 posti) per la registrazi­one, mentre i minori vengono accolti nel centro apposito. Diverso il discorso per i marocchini: “Per me conta la libertà, non voglio star in un centro, seguire le regole e il percorso normale. Ogni notte tento di superare i controlli per nasconderm­i dentro un camion o un container in partenza dal porto di Ceuta verso Algeciras. Ieri un nostro amico ce l’ha fatta”. Hamid, 15 anni, ci mostra la foto del fortunato, capace di eludere i controlli doganali. Lui, assieme ad un gruppo di coetanei, vive in mezzo agli scogli cubici messi a protezione del porto. Il giaciglio ricavato tra i cunicoli dei blocchi frangiflut­ti. Fa freddo, un freddo umido, e il vento non smette mai di soffiare: “Per battere il gelo ci copriamo bene – Youssef, un altro ragazzino cresciuto troppo in fretta, ci mostra i nove strati di vestiti –, da mangiare lo prepariamo qui usando il fuoco vivo. Chiediamo l’elemosina fuori dai negozi della città e coi soldi racimolati facciamo la spesa”.

Ogni secondo mercoledì del mese nella piazza principale di Ceuta si svolge il Circulo del silencio: “È l’occasione per fare il punto su cosa è successo nel mese preceden-

te sul fronte dei diritti umani, tra migranti e le donne marocchine sfruttate – spiega Maite Perez Lopez, dirigente del centro San Antonio che offre lezioni di lingua spagnola e corsi di formazione per migranti –. Ci ritroviamo tutti insieme sperando di at- tirare l’attenzione della città. Purtroppo gli spagnoli di Ceuta, la maggior parte dei quali sono di origini marocchine, non vedono di buon occhio i migranti, il loro atteggiame­nto è aggressivo o di indifferen­za e le cose stanno peggiorand­o”. Se i migranti non se la passano bene, a Ceuta, ci sono altri inferni.

Fiumi di donne marocchine, a caccia di un lavoro, seppur degradante, che consenta loro di sopravvive­re: ogni giorno fanno la spola attraverso la frontiera di Tarajal II. Considerat­e lavoratric­i di serie B, senza diritti e tutele, accudiscon­o anziani e famiglie spagnole “bene” in cambio di paghe misere per gli standard europei, dai 120 ai 250 euro a settimana. Ovviamente in nero: “Il sabato mattina lascio Fnideq, entro in Spagna e inizio il mio la- voro in casa di una famiglia per cui lavoro da qualche mese”. Aisha ha passato i cinquanta, vedova, i figli grandi, per campare fa la domestica. Nel 2017 ha perso il vecchio lavoro ed è rimasta disoccupat­a per mesi: “Ho pensato al peggio, sono andata in depression­e, poi mi ha chiamata un’altra famiglia. Adesso sopravvivo”.

EPPURE c’è chi sta ancora peggio. Le mujeres porteado

ras, “spallone” nordafrica­ne pagate una miseria per trasportar­e carichi pesantissi­mi sulla schiena attraverso la frontiera. Il sistema più economico per far passare merci da un continente all’altro. Le schiave del ventunesim­o secolo. Pochi giorni fa, all’apertura dei cancelli della dogana spagnola ( le porteadora­s vengono fatte passare in un varco alternativ­o e oscurato al transito dei turisti, per non mostrare lo sfruttamen­to), in mezzo alla calca una donna è morta schiacciat­a, un’altra è in fin di vita.

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LaPresse / Ansa Pfc Filo spinato La Guardia Civil controlla il confine e, a sinistra, le mujeres portadores Speranza Un gruppo di giovani donne cucinano tra i blocchi di cemento a Ceuta
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