Il Fatto Quotidiano

L’ossessione per la famiglia rafforza le disuguagli­anze

Le coppie con due figli conviventi ormai sono una minoranza e il tentativo di tutelare un assetto tradiziona­le ormai confinato solo agli spot dei biscotti ispira politiche strabiche che non aiutano chi ha più bisogno

- » ROSSELLA GHIGI E ROBERTO IMPACCIATO­RE

Un paradosso sembra caratteriz­zare l’Italia da quarant’anni: il permanere di una cultura fortemente familista e una progressiv­a contrazion­e della famiglia. Il nostro Paese, con una media di 1,35 figli per donna, è una delle regioni al mondo con il più basso tasso di fecondità. Tanta famiglia nella cultura, nei discorsi e nell’immaginari­o anche istituzion­ale del cattolicis­simo Paese del Family day ma poca famiglia nelle scelte riprodutti­ve e nei percorsi di vita.

I DATI ISTAT più recenti mostrano che la famiglia costituita da una coppia con un paio di figli conviventi rappresent­a ormai appena un terzo di tutte le famiglie con figli (con buona pace delle pubblicità dei biscotti, le famiglie composte da madre, padre e due figli sono il quindici per cento del totale). Negli ultimi vent’anni, le separazion­i sono aumentate di quasi il 70 per cento e i divorzi sono quasi raddoppiat­i. Infine, il radicament­o del fenomeno migratorio: il diffonders­i dei ricongiung­imenti familiari e delle coppie miste contribuis­cono a rendere ancora più articolato il quadro contempora­neo.

Maria Castiglion­i e Gianpiero Dalla Zuanna hanno recentemen­te suggerito ( La famiglia è in crisi, Falso!, Laterza 2017) una chiave interpreta­tiva di come il basso tasso di fecondità e gli squilibri di genere si connettano al forte familismo nei valori e nell’immaginari­o sociale. La nostra società è articolata intorno a “legami forti” familiari, nonostante i rilevanti cambiament­i citati. In Italia si esce più tardi da casa dei genitori (secondo Eurostat, oltre 31 anni per gli uomini, mentre gli svedesi se ne vanno a 19,7 anni e i francesi a 24,8); quando lo si fa si va comunque ad abitare vicino alla famiglia di origine (il 70 per cento delle persone con più di 30 anni risiede a meno di 10 chilometri dalla madre quando questa è ancora in vita, in Francia e Germania la percentual­e è al 45), si provvede ai bambini sotto i tre anni e ai grandi anziani perlopiù a casa e in famiglia; infine, le norme fiscali e il sistema di protezione sociale tendono a sostenere la continuità familiare tra generazion­i più che altrove. Tutto questo è alimentato dall’idea che la famiglia sia e debba essere la principale forma di sostegno nella transizion­e all’età adulta e nelle sue successive fasi della vita.

L’aiuto intergener­azionale su cui si basa il modello del “più famiglia” è un fattore di protezione in fasi di criticità economiche o di necessità di cura. Ma questo è vero quando una famiglia alle spalle c’è, quando ha le risorse sufficient­i e quando è possibile abitarvi vicino. Non sempre è così: famiglie numerose, immigrati, giovani che possono contare su genitori o nonni benestanti non ricadono in questo modello. Questo si- stema ha come conseguenz­a il fatto di confermare le disuguagli­anze e limitare la mobilità sociale, oltre che quella territoria­le.

SE DUNQUE un intervento politico vuole andare nella direzione di un appianamen­to delle disuguagli­anze, di un maggiore benessere dei cittadini e di una sostenibil­ità del sistema pensionist­ico ( già oggi una persona ogni cinque ha più di 60 anni), è necessario definire subito alcune priorità. Innanzitut­to, il ricambio generazion­ale: un punto sul quale vale la pena di riflettere è il gap tra figli che si vorrebbero avere e figli che alla fine si riescono a fare. Questo gap è rivelatore di un insieme di fattori, come le condizioni culturali, struttural­i ed economiche, il costo diretto di ciascun figlio, il suo costo-opportunit­à, le aspettativ­e rispetto al proprio corso di vita, la fiducia in un la- voro stabile. I dati ci dicono che siamo un Paese in cui le donne rischiano più che in altri in Europa di uscire dal mercato del lavoro e contano su strumenti di conciliazi­one ancora frammentar­i e disomogene­i sul territorio. Inoltre, quando la conquista dell’autonomia abitativa avviene tardi e non ci sono strumenti che aiutano i giovani a relazionar­si con un mercato immobiliar­e tarato su garanzie che solo un lavoro a tempo indetermin­ato può dare, il passaggio a un’età adulta diventa un’esperienza sempre più lenta e difficolto­sa. Ed è più difficile raggiunger­e negli anni successivi il numero di figli desiderato: siamo il Paese con più alta proporzion­e di donne che diventano madri dopo i 40 anni.

Una disoccupaz­ione giovanile doppia rispetto alla media europea, il difficile accesso al lavoro anche con un alto titolo di studio, la neces- sità di una maggiore mobilità territoria­le, l’in c re m e nt o della povertà minorile, la scarsa istituzion­alizzazion­e dei grandi anziani concorrono ad aumentare il carico sulle famiglie italiane: un welfare assistenzi­ale orientato all'aiuto monetario nelle responsabi­lità familiari rappresent­a un intervento debole che finisce per compensare squilibri e asimmetrie. Ed è chiaro che la direzione da prendere è quella del contrasto alle disuguagli­anze e dell’adozione di misure che garantisca­no una maggiore redistribu­zione della ricchezza.

Quanto più la politica de- familiariz­zerà alcune funzioni, tanto più essa redistribu­irà tra pubblico e privato i costi degli squilibri demografic­i e ridurrà le disuguagli­anze. E questo non potrà che giovare alla famiglia stessa, vecchia o nuova che sia.

Resiste una cultura familista che non è più coerente con le nuove scelte di vita degli italiani

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