L’ossessione per la famiglia rafforza le disuguaglianze
Le coppie con due figli conviventi ormai sono una minoranza e il tentativo di tutelare un assetto tradizionale ormai confinato solo agli spot dei biscotti ispira politiche strabiche che non aiutano chi ha più bisogno
Un paradosso sembra caratterizzare l’Italia da quarant’anni: il permanere di una cultura fortemente familista e una progressiva contrazione della famiglia. Il nostro Paese, con una media di 1,35 figli per donna, è una delle regioni al mondo con il più basso tasso di fecondità. Tanta famiglia nella cultura, nei discorsi e nell’immaginario anche istituzionale del cattolicissimo Paese del Family day ma poca famiglia nelle scelte riproduttive e nei percorsi di vita.
I DATI ISTAT più recenti mostrano che la famiglia costituita da una coppia con un paio di figli conviventi rappresenta ormai appena un terzo di tutte le famiglie con figli (con buona pace delle pubblicità dei biscotti, le famiglie composte da madre, padre e due figli sono il quindici per cento del totale). Negli ultimi vent’anni, le separazioni sono aumentate di quasi il 70 per cento e i divorzi sono quasi raddoppiati. Infine, il radicamento del fenomeno migratorio: il diffondersi dei ricongiungimenti familiari e delle coppie miste contribuiscono a rendere ancora più articolato il quadro contemporaneo.
Maria Castiglioni e Gianpiero Dalla Zuanna hanno recentemente suggerito ( La famiglia è in crisi, Falso!, Laterza 2017) una chiave interpretativa di come il basso tasso di fecondità e gli squilibri di genere si connettano al forte familismo nei valori e nell’immaginario sociale. La nostra società è articolata intorno a “legami forti” familiari, nonostante i rilevanti cambiamenti citati. In Italia si esce più tardi da casa dei genitori (secondo Eurostat, oltre 31 anni per gli uomini, mentre gli svedesi se ne vanno a 19,7 anni e i francesi a 24,8); quando lo si fa si va comunque ad abitare vicino alla famiglia di origine (il 70 per cento delle persone con più di 30 anni risiede a meno di 10 chilometri dalla madre quando questa è ancora in vita, in Francia e Germania la percentuale è al 45), si provvede ai bambini sotto i tre anni e ai grandi anziani perlopiù a casa e in famiglia; infine, le norme fiscali e il sistema di protezione sociale tendono a sostenere la continuità familiare tra generazioni più che altrove. Tutto questo è alimentato dall’idea che la famiglia sia e debba essere la principale forma di sostegno nella transizione all’età adulta e nelle sue successive fasi della vita.
L’aiuto intergenerazionale su cui si basa il modello del “più famiglia” è un fattore di protezione in fasi di criticità economiche o di necessità di cura. Ma questo è vero quando una famiglia alle spalle c’è, quando ha le risorse sufficienti e quando è possibile abitarvi vicino. Non sempre è così: famiglie numerose, immigrati, giovani che possono contare su genitori o nonni benestanti non ricadono in questo modello. Questo si- stema ha come conseguenza il fatto di confermare le disuguaglianze e limitare la mobilità sociale, oltre che quella territoriale.
SE DUNQUE un intervento politico vuole andare nella direzione di un appianamento delle disuguaglianze, di un maggiore benessere dei cittadini e di una sostenibilità del sistema pensionistico ( già oggi una persona ogni cinque ha più di 60 anni), è necessario definire subito alcune priorità. Innanzitutto, il ricambio generazionale: un punto sul quale vale la pena di riflettere è il gap tra figli che si vorrebbero avere e figli che alla fine si riescono a fare. Questo gap è rivelatore di un insieme di fattori, come le condizioni culturali, strutturali ed economiche, il costo diretto di ciascun figlio, il suo costo-opportunità, le aspettative rispetto al proprio corso di vita, la fiducia in un la- voro stabile. I dati ci dicono che siamo un Paese in cui le donne rischiano più che in altri in Europa di uscire dal mercato del lavoro e contano su strumenti di conciliazione ancora frammentari e disomogenei sul territorio. Inoltre, quando la conquista dell’autonomia abitativa avviene tardi e non ci sono strumenti che aiutano i giovani a relazionarsi con un mercato immobiliare tarato su garanzie che solo un lavoro a tempo indeterminato può dare, il passaggio a un’età adulta diventa un’esperienza sempre più lenta e difficoltosa. Ed è più difficile raggiungere negli anni successivi il numero di figli desiderato: siamo il Paese con più alta proporzione di donne che diventano madri dopo i 40 anni.
Una disoccupazione giovanile doppia rispetto alla media europea, il difficile accesso al lavoro anche con un alto titolo di studio, la neces- sità di una maggiore mobilità territoriale, l’in c re m e nt o della povertà minorile, la scarsa istituzionalizzazione dei grandi anziani concorrono ad aumentare il carico sulle famiglie italiane: un welfare assistenziale orientato all'aiuto monetario nelle responsabilità familiari rappresenta un intervento debole che finisce per compensare squilibri e asimmetrie. Ed è chiaro che la direzione da prendere è quella del contrasto alle disuguaglianze e dell’adozione di misure che garantiscano una maggiore redistribuzione della ricchezza.
Quanto più la politica de- familiarizzerà alcune funzioni, tanto più essa redistribuirà tra pubblico e privato i costi degli squilibri demografici e ridurrà le disuguaglianze. E questo non potrà che giovare alla famiglia stessa, vecchia o nuova che sia.
Resiste una cultura familista che non è più coerente con le nuove scelte di vita degli italiani