“Sono sopravvissuto al volo e insegno a volare tra i pali”
Davide Capello, 34 anni, ex Serie B, lasciò il calcio per l’assunzione nei vigili del fuoco Rimasto con l’auto tra le macerie del ponte Morandi, il Genoa lo ha poi ingaggiato per allenare i giovani portieri
“Il portiere deve essere coraggioso, perché si butta, vola in aria sapendo che rischia lo scontro. Deve fermare il tiro anche quando è forte e fa male”. Ascolti le parole di Davide e ti chiedi se stia pensando soltanto al pallone che tiene tra le mani, che accarezza, o alla vita. Ogni singola parola potrebbe avere due significati. Soprattutto “volo”: quello leggero e stupendo per catturare la palla e l’altro, terribile, giù dal Morandi. Perché Davide Capello, 34 anni, è il primo superstite del ponte: il vigile del fuoco a fine turno che tornando a casa volò giù dal ponte per decine di metri finché la sua auto si incastrò miracolosamente in un anfratto del pilone 10. È lui che si trovarono davanti i soccorritori e il cronista arrivando alle 11,50 del 14 agosto, un quarto d’ora dopo il disastro. Davide era lì, che vagava tra le macerie, coperto di polvere, fradicio di pioggia, ma sempre lucido. Come oggi: “L’ult ima volta che ci siamo visti era quel giorno”, ti dice porgendoti la mano grande, forte, da uomo che ha imparato a parare i tiri degli avversari e della vita.
RICOMINCIA da qui, Davide, da un campetto di periferia. Siamo alla diga di Begato, una barriera di cemento alta decine di metri, migliaia di finestre una accanto all’altra (in cima la luce viola, lampeggiante di un festone di Natale). “Dopo l’incidente sono diventato l’allenatore dei giovani portieri del Genoa”, dice puntandosi il dito sullo scudetto cucito sul petto. Deve esserci il rossoblù nel suo destino: prima il Cagliari, lui che è sardo e ha gio- cato come professionista nella squadra che fu di Gigi Riva. Fino alla serie B e alla nazionale under 20. Oggi lo ritrovi circondato dai bambini del vivaio genoano che gli fanno festa: “Ciao mister”, urlano sventolando i guantoni. Davide gli parla con la calma e la dolcezza venata di malinconia della sua gente di Sardegna. Ma non è solo quello. “Dai, bravo, ottimo”, prima di tutto li incoraggia. Perché il “portiere è il ruolo più bello e completo, devi saper usare le mani, ma anche i piedi. Ma è anche il più difficile, sei tu contro tutti, se sbagli non c’è rimedio”. A questo il mister deve preparare i bambini con la casacca rossa: “Certo, devono saper parare e vincere. Ma ancor prima elaborare l’errore e il dolore, riuscire a lasciarseli alle spalle perché fanno parte del gioco e della vita”. Mentre lo ascolti parlare sullo sfondo vedi la Valpolcevera e lo scheletro monco del ponte Morandi. Sarà a un chilometro in linea d’aria, ti sembra di toccarlo.
La solitudine del portiere, Davide lo ha scelto per questo: “È una passione. Sei l’unico in campo con la maglia diversa dagli altri. L’unico che può prendere in mano il pallone”. Era cominciato tutto dai cam- petti di Nuoro, la sua città. I ricordi più belli? “La partita con la nazionale under 20 contro il Marocco nel 2005. E poi l’ultima, quando già giocavo nel Savona, cinque anni fa. Vincemmo 3 a 1 con l’Albino Leffe, ma io a 29 anni già sapevo che avrei appeso i guanti al chiodo perché mi era arrivata la let- tera: assunto nei vigili del fuoco”.
È questo il suo lavoro oggi: “Sai, mi sono andato a risentire la mia chiamata alla sala operativa di quel giorno, ho sentito la mia voce che chiedeva aiuto. Ma ho provato a non perdere il controllo”, ti racconta senza vantarsi, ma con orgoglio. Il difficile, però, viene ora: chiedersi perché proprio tu, sentirsi quasi in colpa di essere vivo, come il protagonista di quel film, Fearless, sopravvissuto a un disastro aereo: “Ricordo ogni istante, il buio della galleria, la pioggia fortissima all’uscita, il camion rosso - quello che si vede accartocciato nelle foto finite sui giornali di mezzo mondo, ndr - e tutte le auto, una per una. Fino al volo...”, si ferma come se fosse ancora sospeso in aria, “al momento che mi sono ritrovato nell’auto incastrata tra le macerie. E ho capito che ero vivo. Ricordo anche te che mi sei venuto incontro con il taccuino in mano mentre salivo sull’ambulanza”. Sempre lucido, come il portiere che “non deve mai perdere la concentrazione”. Ma poi rivede ogni istante, se lo ritrova negli incubi: “Sì, me lo sogno. Non il ponte, ma la caduta. Ho sognato che ero in porto con l’auto e all’improvviso volavo giù dalla banchina, finivo in mare”.
Per fortuna c’è il lavoro da vigile del fuoco: rispondere alle telefonate di chi chiede aiuto, come lui quella mattina. Riscattare la propria sorte. E poi i pomeriggi nel campetto con i bambini del Genoa, che lo ha rivoluto in campo: “Solo qui stacco. Sono felice con loro. Non sono più professionista, ma non ho rimpianti: la fortuna che non ho avuto nel calcio, l’ho avuta nella vita. Dai Simone, para questo, buttati!”.
IL NUMERO 1
“L’estremo difensore è solo, deve saper vincere. Ma ancor prima elaborare gli errori lasciandoseli alle spalle”