Ponte Morandi: Autostrade s’attacca alle perizie, sarà un processo infinito
L’azienda contesta perfino la traduzione dal tedesco delle carte
■ Finalmente arriva in tribunale lo studio svizzero sulle cause del crollo del viadotto: i fili che compongono i cavi d’acciaio erano corrosi, “un degrado in atto da molto tempo”. Ma la società continua a ottenere rinvii. Intanto è iniziata la demolizione
“Di questo passo il processo finirà tra anni”, senti sospirare nell’aula del Tribunale di Genova. Mentre ieri il ponte Morandi perdeva il suo primo pezzo alla presenza di Giuseppe Conte, a Palazzo di Giustizia l’incidente probatorio segnava una battuta d’arresto. Cosa succede? Dopo ben due mesi da quando gli studiosi di Zurigo hanno presentato lo studio commissionato dai periti del gip, ieri finalmente è arrivata la traduzione in italiano: 172 pagine, il cardine del processo. Ma subito l’avvocato di uno dei manager di Autostrade ha sollevato un’eccezione: alla traduzione, ha sostenuto, dovevano partecipare interpreti scelti dalle parti. In aula c’è stato un attimo di silenzio. Si rischiano di perdere mesi, soltanto per tradurre un documento. E dopo ore di camera di consiglio, il gip accoglie, anche per evitare che l’eccezione venga magari tirata fuori al dibattimento. Ci si rivedrà il 15 febbraio. Il risultato lo ricostruisce uno degli avvocati di Autostrade: “Ogni parte ha diritto a individuare i
Lo studio svizzero Tutti i trefoli mostrano segni di corrosione: il processo di degrado in atto da molto tempo
suoi periti tecnici. E adesso anche gli interpreti”. Provate a immaginare la scena: 21 indagati, più le eventuali parti civili, ognuno con i relativi avvocati, più i periti (spesso una nutrita squadra) e infine gli interpreti. Si rischia di andare alle calende greche solo per questo documento (se dovrà essere tradotto di nuovo si rischia di perdere mesi). Una mossa per tirare il processo per le lunghe? “Macché - assicura uno dei legali degli indagati di Autostrade che chiede di non essere citato - quello studio è la base del processo. Dobbiamo essere tutti d’accordo su ogni parola”.
Ma il senso del documento - anticipato dal Fatto il 14 dicembre - sembra trasparire già dalla prima traduzione depositata ieri. Molti passaggi puntano il dito sui trefoli (i fili che compongono i grandi cavi d’acciaio). A pagina 23 si legge: “Tutti i trefoli e i fili mostrano segni di corrosione di diverso grado. Alcuni trefoli mostrano una perdita totale della sezione trasversale dovuta a corrosione nella zona terminale. Ciò indica un pro- cesso di degrado in atto da molto tempo”. Trefoli corrosi, come testimoniano decine di fotografie. I tecnici svizzeri li hanno sottoposti a test di resistenza: “Numerosi frammenti indicano una certa fragilità dei singoli fili... Inoltre, i frammenti potrebbero anche essersi separati dal resto del filo a causa della perdita totale della sezione dovuta alla corrosione”. Ancora: “Il comportamento di fragilità dei fili è stato controllato a campione, con una prova di flessione di un filo del reperto corroso eseguita, in modo ru- dimentale, a mano... Il campione si è rotto improvvisamente e senza preavviso (indicando che era fragile) nell’area di un punto di corrosione a conca. La rottura è stata accompagnata da un nitido rumore di spaccatura. Le superfici di frattura mostrano un aspetto estremamente fragile al microscopio ottico”.
ANCORA: “LE SUPERFICI di frattura di alcuni fili presentano una corrosione secondaria assai elevata e le strutture della frattura sono pertanto completamente irriconoscibili... La sezione trasversale del filo” in alcuni casi “è ridotta nell’area delle superfici di frattura fino al 25%”.
Ma c’è una questione inedita cui gli studiosi di Zurigo paiono dedicare molta importanza: le infiltrazioni di idrogeno. Cioè l’acqua che negli anni avrebbe corroso i cavi: “Il contenuto totale di idrogeno di tutti i fili esaminati è significativamente superiore alla soglia critica. Il contenuto misurato indica un maggior rischio per l’acciaio da precompressione di infragilimento da idrogeno e corrosione sotto sforzo indotta dall'idrogeno”. E parliamo di un ponte in posizione critica: vicino al mare, esposto all’acqua e al salino (anche su questo si punta l’attenzione degli svizzeri).
INSOMMA, SI È VISTO IERI: la battaglia legale sarà lunga. Ci si rivedrà il 15 febbraio e poi l’8 aprile. Anche per verificare se le tappe fissate per sopralluoghi e demolizione potranno essere rispettate: a fine mese verranno montate le torri ausiliarie per i sopralluoghi nella parte est del ponte - dove è avvenuto il crollo - poi il 15 aprile
dovrà essere demolito il pilone 11 e il 28 maggio il 10. A quel punto, tolte le macerie - migliaia di tonnellate - sarà campo libero per la costruzione del nuovo ponte. Ieri intanto i lavori di demolizione hanno dato il primo risultato visibile: è stato rimosso - un’impresa ancora in corso questa notte - un troncone di 36 metri e 800 tonnellate. Calato a terra a cinque metri l’ora.
Primo passo ed ennesima sfilata di autorità: Conte, il ministro Danilo Toninelli, il viceministro Edoardo Rixi, il governatore Giovanni Toti e il sindaco-commissario Marco Bucci. Anche se le promesse sono diventate con i mesi più misurate: “Ho parlato con le aziende - ha detto Conte - mi hanno assicurato che entro l’anno il ponte sarà in piedi... poi dovremo aspettare qualche altro mese”, perché sia percorribile. Toninelli azzarda di più, parla di inizio 2020: “Questo ponte non lo sta pagando lo Stato. Circa 200 milioni sono già stati dati agli sfollati, nelle prossime ore arriverà un altro bonifico da parte di chi doveva gestire questa infrastruttura e non l’ha fatto. Su quei pistoni idraulici non viene giù solo un pezzo del ponte, ma anche un sistema di gestione dei beni pubblici che ha messo gli interessi di pochi davanti alla sicurezza di tutti. Ora meno opere inutili e più manutenzione”.