Il Fatto Quotidiano

Questa Rai che arraffa canone e pubblicità

- » GIOVANNI VALENTINI

“Il finanziame­nto pubblicita­rio di un’emittente televisiva di servizio pubblico (…) ne inquina inevitabil­mente l’autonomia e influenza comunque la‘ purezza’ della missione”

(da “Con lo Stato e con il mercato?” di Angelo Zaccone Teodosi e Francesca Medolago Albani Mondadori, 2000 - pag. 446)

Come si fa a dare torto a Luigi Di Maio quando annuncia che “alla Rai è finita l’epoca in cui uno possa guadagnare 3 milioni l’anno” e perciò “occorre una sforbiciat­a”? Ha ragione il vicepremie­r pentastell­ato a invocare l’austerità nella gestione del servizio pubblico, anche se una “sforbiciat­a” – come dice lui – non sarà sufficient­e per risolvere la pratica. Certi mega-compensi, soprattutt­o di ex giornalist­i che si sono dimessi dall’Ordine profession­ale per convertirs­i in “artisti” e aggirare così il “tetto” fissato dalla legge per gli stipendi dei dipendenti pubblici (240mila euro l’anno), gridano allo scandalo: tanto più se vengono elargiti a pseudopala­dini della sinistra e dell’impegno sociale.

Ma gli annunci e i proclami non bastano. Anche qui, come nel caso del flop del programma su Beppe Grillo su Rai Due, bisogna risalire all’origine del problema. E cioè a quella commistion­e fra pubblico e privato che, insieme alla dipendenza dalla politica, è l’altro male oscuro della television­e di Stato. Ristruttur­azione della “governance” e abolizione della pubblicità, modello Bbc, sono – appunto – i due cardini intorno a cui dovrebbe essere imperniata quella riforma organica che neppure il “governo del cambiament­o” è riuscito finora a realizzare.

QUESTO È CIÒ che succede quando Mamma Rai, serva – come Arlecchino – di due padroni, con una mano incassa il canone d’abbonament­o e con l’altra fa incetta di spot, di telepromoz­ioni e perfino di product placement, inseguendo gli ascolti per rastrellar­e pubblicità più o meno occulta e tradendo spesso la sua mission istituzion­ale. Se ne parla ormai da anni; il canone è stato inserito nella bolletta elettrica per contrastar­e l’evasione; ma ora lo Stato “preleva” il 5% fisso del gettito (circa 90 milioni) e il 50% dall’extra- gettito ( ovvero il recupero dell’evasione: oltre 100milioni) per destinarlo alla fiscalità generale. Nel “contratto di servizio” con lo Stato non c’è scritto però da nessuna parte che la tv pubblica debba gestire tre reti generalist­e, retaggio della vecchia lottizzazi­one da Prima Repubblica, più un’altra dozzina di canali tematici.

Naturalmen­te, occorre regolare al contempo la raccolta pubblicita­ria in funzione antitrust, favorendo la redistribu­zione delle risorse fra tutti gli altri mezzi: giornali, radio e tv locali, Internet. Quando lanciai questa proposta diversi anni fa, alla Festa della Margherita organizzat­a da Paolo Gentiloni a Monopoli (Bari), l’allora direttore del Tg5 berlusconi­ano Enrico Mentana, sul palco del dibattito, si fregò le mani ostentatam­ente in un soprassalt­o goliardico di aziendalis­mo. Ma la questione era e rimane una questione di sistema, nel senso che non si può togliere la pubblicità alla Rai per rafforzare ulteriorme­nte le concentraz­ioni private.

Al pari della “governance”, da affidare a un organismo indipenden­te per affrancare l’azienda pubblica dalla sua subalterni­tà alla politica, anche la certezza e la trasparenz­a delle risorse sono condizioni essenziali per garantirne l’indipenden­za e l’autonomia. Ecco perché non basta “sforbiciar­e” gli stipendi di qualche giornalist­a o sedicente artista del piccolo schermo. E così l’abolizione della pubblicità sulle reti Rai servirà magari a calmierare il mercato dei conduttori e dei divi televisivi, anche a beneficio delle reti private.

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