Tav, sulla macchina del tempo che corre ad alta velocità
Sembra che in Italia qualcuno abbia rotto gli orologi e il tempo si sia fermato. Il ministro Danilo Toninelli tuona: “Chi se ne frega di andare a Lione?”. Tripudio dei fans, pernacchie dei detrattori. Ma il punto è che ogni giorno, come Bill Murray in Ricomincio da capo (1993), ci svegliamo e rifacciamo la stessa discussione di 30 anni fa. Toninelli era al liceo e Andreotti a Palazzo Chigi, c’erano il Muro di Berlino, Reagan e Gorbaciov, la lira e il marco, il telefono bigrigio. Gli italiani già dibattevano sul tunnel per Lione: che cosa ci andiamo a fare? Con il permesso del lettore, vorrei contribuire allo stagionato dibattito con un ricordo personale. A Lione ci sono andato. Nel 1994. Il giornale per cui lavoravo mi mandò con la macchina del tempo a cercare con 25 anni di anticipo una risposta per Toninelli. Lione era già collegata a Parigi con l’alta velocità: 460 chilometri in due ore. La città ne era trasformata, erano arrivate la sede mondiale dell’Interpol e la rete televisiva Euronews. Clima euforico, città illuminata a giorno h24 (tanto c’era il nucleare), quattro linee di metropolitana senza macchinisti, un grande trenino elettrico governato da un computer . “Non serve a risparmiare sul personale”, spiegava un manager, “ma a modulare la frequenza dei treni senza chiedersi quanti macchinisti sono in turno”. Un sogno di progresso che si avverava, raccontato in un lungo articolo intitolato Meglio un giorno da Lione. Sergio Pininfarina, storico promotore del Tav, diceva allora: “Ritardi nella realizzazione della Torino-Lione ad alta velocità avrebbero l’effetto di portare al collasso la rete stradale della Valle di Susa, con gravi danni ambientali, oppure di deviare i grandi flussi dei trasporti su altre direttrici”. È la frase che i Sì-Tav ripetono oggi come se fosse nuova.
ALLORA ERA OPINABILEma sensata. Oggi è pura letteratura fantastica. Ecco, la letteratura illumina il baratro in cui siamo finiti. Nel 1889 Mark Twain scrisse A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court, storia fantastica di un americano che si trova misteriosamente trasportato nell’Inghilterra di re Artù. Hank Morgan sfodera le sue conoscenze tecnologiche ottocentesche, come il treno, e viene acclamato come mago. L’Italia vive lo stesso sogno in forma di incubo: strateghi fermi al 1989 sostengono di aver inventato il treno. Gente capace di intimare a Zuckerberg che il futuro è nei transistor, come se si fossero svegliati da un lungo sonno, tipo Goodbye Lenin, ignari di che cosa è accaduto nel frattempo: la caduta del Muro di Berlino, internet e gli smartphone, la globalizzazione, il primato economico cinese, il crollo dei costi dei trasporti marittimi, i motori Euro 6 che abbattono l’inquinamento del 90 per cento. Pininfarina era un imprenditore vero e un uomo onesto, non uno dei finti entusiasti che hanno messo a reddito la capacità di cacciare balle. Ma le sue previsioni non si sono verificate. Il collasso della rete stradale della Val di Susa non c’è stato. Il treno ad alta velocità da Kiev a Lisbona non è stato costruito.
E nel frattempo, dal 1995 al 2014, secondo la Banca Mondiale, il prodotto interno lordo della Francia è cresciuto del 20 per cento, quello dell’Italia del 2. Liberi di pensare che il fallimento dell’economia italiana sia dovuto alla mancata costruzione della Torino-Lione. Ma anche se fosse vero, la Storia si è compiuta così. Non abbiamo costruito quel Tav, il mondo è cambiato, servono idee nuove e le possono dare solo i più giovani, possibilmente un po’ meno analfabeti di certi campioni che vanno per la maggiore. Invece l’Italia è ridotta a un ospizio dove alcuni sessanta-settantenni ripetono ogni giorno, rancorosi e un po’ rincoglioniti, le fesserie che gli piacquero da giovani. Risospinti senza posa nel passato.
Twitter@giorgiomeletti