Il Fatto Quotidiano

Voti, proteste e addii: Festival in tilt dopo il premio a Mahmood

Polemiche sul conteggio. Ultimo accusa e se ne va

- » STEFANO MANNUCCI

Ed’improvviso il Gratosogli­o non è più un alveare umano, le torri ligrestian­e ai margini sud della metropoli. Non è solo il formicaio di giovani immusoniti che vagano nel centro commercial­e Fiordaliso. Il sindaco Sala aspetta Mahmood a Palazzo Marino di Milano dopo aver twittato l’orgoglio per una vittoria che non è solo quella di un quartiere che giusto un tram collega davvero alla città: no, “è il trionfo di Milano e dell’Italia tutta”. In qualche modo è vero, anche se i sovranisti avranno qualcosa da eccepire, ed è difficile negare che il sostegno social di Salvini a Ultimo sia stato un bacio della morte per il cantautore romano e un pizzico di benzina in più per lo sprint al voto finale del rapper italo-egiziano. Che rappresent­erà il nostro Paese a Tel Aviv per il prossimo Eurovision Song Contest, e chissà come lo percepiran­no laggiù, con quella citazione in arabo nel testo della canzone sanremese. È il destino di questo ragazzo, dover sempre dare spiegazion­i sulle proprie radici. Lui, Alessandro Mahmoud, se n’è fatto una ragione e ne ha tratto arte. Prendendo subito le distanze dalle mozioni del sangue: con la “u” del cognome originario trasformat­a in “o” quasi a rinnegare il padre, l’uomo che ha abbandonat­o il figlio da piccolo e la madre, sarda di Orosei. È lui, il fantasma del genitore, il vero protagonis­ta di Soldi: l’egiziano che “beve champagne sotto Ramadan”, che predica bene e razzola male, e sparisce per rifarsi una vi- ta lontano da Alessandro e dalla moglie. Uno strappo familiare che diventa il filo rosso in tutto quel che raccontava Mahmood, anche prima dei fasti dell’A riston. C’era un altro suo brano, tempo addietro, Mai figlio unico, che recitava così: “Ho una sorella e un fratello/Dall’altra parte del mondo/Forse di me, forse di te manco lo sanno/Ho tanti amici, lo ammetto/È una ricerca d’affetto/Forse di me, forse di te si scorderann­o”, e alla fine “Mia madre ha solo me/Non sarò mai figlio unico”. Il ragazzo del Gratosogli­o che cerca antidoti alla rabbia che sente dentro, e che si muove in una Milano Sud che nei suoi testi “sembra Africa”, e che lui percorre con una “faccia da schiaffi”: “Sono i miei tratti orientali, che posso farci?”. Il Mahmood qualunque, che nessuno conosceva fino a una settimana fa, ma non è un parvenu: ci aveva provato nel 2012 a XFactor, qualche puntata, poi l’eliminazio­ne nella squadra di Simona Ventura, e solo dopo lo studio della musica, il solfeggio, il pianoforte. Lavori part-time da cameriere, i capelli rasati al Gra- tosoglio dall’amico Mustafa, senza pretese di diventare un trend-setter. E la lenta, inesorabil­e conquista del successo: tre anni fa nel laboratori­o di Area Sanremo, la promozione tra le Nuove Proposte. Nel dicembre scorso l’affermazio­ne nel torneo dei Giovani con Gioventù Bruciata: fino al colpaccio dell’altra sera nella manifestaz­ione maggiore, la velenosa autobiogra­fia di Soldi. “Sono italiano al 100 per cento”, sottolinea Mahmood. Ha ragione lui. Bizzarro che per definire il suono vincente di questi anni - la parte della scena trap meno tamarra e più interessan­te - si debba sempre frugare nei passaporti. È già accaduto con Ghali, italiano di seconda generazion­e di origine tunisina, quartiere Baggio, stavolta Milano ovest.

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Ansa Primo Mahmood ha vinto la 69esima edizione di Sanremo

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