L’ETERNO CONFLITTO CON LA FRANCIA
GILETS JAUNES Sono goffi i tentativi di dialogo con la loro parte più retriva: è cattiva politica
GUERRA LIBICA Fu voluta dai francesi per scalzare i nostri interessi petroliferi e consolidare la presa sulle loro ex colonie
Achi si stupisce delle iniziative scomposte, da un versante all’altro delle Alpi (ce ne sono state parecchie anche da parte francese), mi viene da rispondere: “È l’Europa, bellezza!”. Sì, proprio quell’Europa, più unita e più politica, l’Europa di Ventotene per intenderci, che siamo in molti a bramare, prevede un agone politico unico in occasione dell’elezione del Parlamento europeo, con la relativa ricerca di alleati continentali.
Ne consegue che il perenne conflitto tra ruoli di governo e comportamenti politici si allarga, come non sia il caso di riesumare la pugnalata nella schiena a una Francia già sconfitta da Hitler. Quella sì una vera macchia nella nostra storia nazionale! I goffi tentativi di dialogo con la parte più retriva dei gilets
jaunes non sono altro che cattiva politica su scala europea, non soltanto nel merito, opinabile, ma per una ragione più profonda. Facciamo un passo indietro nel tempo, senza intenti nostalgici, ma per meglio operare nel presente. Nel lontano 1995 il Senato condannò in maniera netta la ripresa degli esperimenti nucleari francesi per volontà dell’allora presidente Chirac. Dopo qualche esitazione, dovuta alle rimostranze della Francia, il governo Dini – votando a favore della mozione di condanna dell’assemblea generale dell’Onu – per ragioni istituzionali (come noto ai nostri alleati, siamo una Repubblica parlamentare) si adeguò al voto del Senato, usandolo per attenuare l’impatto negativo nei rapporti tra i due governi. Anche se Parigi fece saltare l’imminente vertice di Napoli, passata la tempesta i rapporti tra i due Paesi ripresero il loro corso.
E ora? Il contenzioso tra i due Paesi è ben più nutrito e anche, diciamolo con chiarezza, più sbilanciato a favore dell’Italia. Purtroppo, invece, lo stile vigente, soprattutto ma non soltanto in casa nostra, è tale da indebolire, se non compromettere le nostre buone ragioni. Nessuno s’inganni. In politica la forma non è soltanto forma. È sostanza. Lo è ancor più se coinvolge rapporti tra Stati (la diplomazia) perché, più duraturi di altri soggetti politici (partiti, per non parlare di singole donne o uomini politici) e, quindi, destinati a ritrovarsi, a ricercare nuove convergenze, tali da richiedere il superamento di conflitti precedenti. Questa è buona politica, buona diplomazia, perché si fonda sul merito dei problemi, che variano nel tempo, e non su giochi di schieramento; quello che, in gergo, chiamiamo politicismo e che ormai 9 cittadini su 10 non tollerano. Conclusione: la buona politica esige buone maniere. Ovvero: forma e sostanza sono due facce di una stessa medaglia. Con un corollario: la scelta dei tempi è essenziale, nei rapporti con le persone, coi partiti e, ancor più, con gli Stati. Un grande statista del XVII° secolo, Axel von Oxenstierna, cancelliere di Gustavo II Adolfo di Svezia, protagonista della pace di Westfalia, sosteneva che “l’occasio è elemento supremo della politica”. Ciò che, in una data fase risulta irrimediabilmente controverso può successivamente diventare accettabile. Nel contesto delle dispute italo-francesi, il premier Conte ha formulato una proposta che governi e parlamenti che l’hanno preceduto avrebbero dovuto sostenere da decenni: quella di istituire un seggio permanente dell’Europa nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, sostituendo i seggi nazionali obsoleti (della Francia e del Regno Unito, in quanto vincitori della Seconda guerra mondiale) ed escludendone di nuovi (la Germania ha rinnovato quella richiesta, accolta da Macron, in occasione del recente vertice). Una proposta sacrosanta, ma bruciata, perché espressa con tempi sbagliati (la riforma del Consiglio di sicurezza è su un binario morto) e in un contesto che la trasforma in una provocazione nei confronti della Francia.
Quali sono, ora, queste nostre buone ragioni, che rischiano di essere compromesse, non soltanto dalle cattive maniere? Non in Libia, dove un vero e proprio atto di ostilità della Francia si è tradotto in un pactum scelleris tra l’Italia e la Francia a spese degli ultimi della terra: ovvero coloro che, per condizioni (non importa se politiche o economiche) a tal punto insopportabili nei loro Paesi di provenienza, si vedono costretti a una migrazione che comporta un altissimo tasso di probabilità di morire per annegamento nel Mediterraneo oppure di finire in campi di concentramento ove ogni diritto umano viene violato. La guerra libica fu fortissimamente voluta dalla Francia per scalzare gli interessi petroliferi italiani, prevalenti in quella nostra ex colonia, ma anche per consolidare la presa sulle loro ex colonie confinanti. I britannici non perdono mai occasione per partecipare a una guerra e sollecitare gli Stati Uniti a dirigerla. Hillary Clinton, segretaria di Stato, in parziale disaccordo con il suo presidente (Obama), non vedeva l’ora di surrogare l’egemonia declinante del proprio Paese per fare la guerra alla Libia e rivitalizzare la Nato. Così il governo italiano dell’epoca, in perenne stato di angoscia da isolamento, si è trovato in guerra con se stessa. Nella Libia divisa e non governata, prima Marco Minniti, poi il suo più esplicito successore, Matteo Salvini, hanno costruito una trappola letale. Salvo per quei pochi che riescono a imboccare il canale umanitario offerto dall’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie o ad essere salvati in mare da qualche imbarcazione delle Ong – malgrado la guerra loro dichiarata prima da Minniti e poi da Salvini - dopo una lunga ricerca di un porto disposto a farli attraccare. In perfetta sintonia con la Francia che, con il nostro sostegno, cerca di fermarli nel Niger o in altro avamposto del suo ex impero coloniale.
La vera questione che, invece, ci divide non soltanto dalla Francia, ma dall’Unione Europea nel suo insieme, è la mancanza di una politica comune su un problema epocale quale quello dell’immigrazione dai Paesi più poveri e più tormentati verso il nostro continente. Ne consegue che gli oneri che ne derivano per ragioni geografiche gravano soprattutto sulle spalle dell’Italia, della Grecia e della piccola Malta (e, a pagamento, della Turchia). Le pur fondate polemiche di Di Battista contro la valuta post-coloniale somministrata a questo e altri Paesi francofoni e subsahariani, fuori da ogni contesto prioritario, offrono soltanto a Parigi la possibilità di eludere le proprie responsabilità in sede europea di fronte ad un problema epocale; quello delle migrazioni, che richiederebbe una politica e una comune disponibilità di distribuire il peso dell’accoglienza e dell’integrazione di migranti in fuga di cui l’Europa, per ragioni demografiche, ha in gran parte bisogno. Se, da parte francese, ciò avvenisse senza esibizioni di crudeltà e violazioni territoriali, a Ventimiglia come a Monginevro, e senza pétarades del vice premier Di Maio, in compagnia del suo amico-rivale Dibba, tanto di guadagnato per tutti, a cominciare dei più deboli e indifesi, usati come pedine.