Il Fatto Quotidiano

Il film di McEnroe Ulisse-Paolini e le foto dei party della I Repubblica

- FEDERICO PONTIGGIA @fpontiggia­1 © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

“Il profano non può percepire quello che succede dentro il giocat ore”. Al Tennis come esperienza religiosa ci introdusse David Foster Wallace, complici l’ineffabile Roger Federer e uno Us Open da antologia, al tennis come esperienza epistemolo­gica ci ammette il francese classe 1978 Julien Faraut, tramite il documentar­io John McEnroe – L’i mpero

della perfezione. Il postulato è del sommo Jean- Luc Godard: “Il cinema può mentire, lo sport no”, le immagini in 16mm dirimenti, le conseguenz­e veridittiv­e: stiamo guardando una partita di tennis o vedendo un film sul tennis? “Usando filmati in 16mm de ll’Institut National du Sport et d e l ’ E d u c a t i o n Physique girati al Roland Garros all’inizio degli anni 80, ho cercato di mettere in risalto i momenti di verità che la competizio­ne rappresent­a”, spiega Faraut, ma quando McEnroe si oppone al dispositiv­o cinetelevi­sivo che succede? Quando minaccia il tecnico audio per un microfono troppo intrusivo, quando guarda in camera con dichiarata sfida, che ne è del cinema del reale e che ne è della realtà filmata?

SEBBENE ne riproduca gli alterchi con i giudici e ne cristalliz­zi icasticame­nte i rovelli agonistici e il disagio al cospetto del pubblico, il regista non concentra la nostra attenzione sulla leggenda bizzosa del campione, piuttosto intende “mostrare McEnroe come uno sportivo profession­ista impegnato a realizzare l’unica cosa che veramente gli interessa sul campo da tennis: battere gli avversari”. E battere il tempo, la variabile che tutto può e nulla concede, sul campo come al cinema. Se a Miami 2014 il match tra Marko Nieminen e Bernard Tomic (6-0 6-1) si risolve in appena 28 minuti e 20 secondi, la durata – sottolinea la voce narrante di Mathieu Amalric – di un episodio di Alfred

Hitchcock presenta, servono i tre capitoli del Padrino, per giunta intervalla­ti da una pausa di un’ora, per conoscere il verdetto dell’incontro tra l’americano John Isner e il francese Nicolas Mahut che a Wimbledon 2010 gareggiaro­no per 11 ore e 5 minuti, ossia 70 game a 68.Come altrimenti negli anni 80 avrebbe potuto Serge Daney, direttore dei Cahiers du Cinéma, scrivere di tennis per Libéra

tion, se non assecondan­do il minimo comune denominato­re, la durata? Quanto tempo occorre prima che compaia la parola “fine”? Quante possibilit­à per inventare il tempo? E non è, sempre con Daney, proprio l’invenzione del tempo il senso dei grandi film?

McEnroe non butta oltre la rete una pallina, bensì compete filosofica­mente, raggiungen­do nel 1984, quasi, la perfezione: il 96,5% di vittorie in una stagione, record ancora imbattuto. E non è un caso che siffatti interrogat­ivi gnoseologi­ci sorgano proprio dallo sport e dai campioni indagati attraverso il cinema, come già Zidane, un portrait du XXIe siècle, un documentar­io del 2006 di Philippe Parreno e Douglas Gordon: la bellezza del gesto, è tutto. Dal 6 maggio in sala, non perdetelo questo

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