Siamo il Bengodi per chi prende i soldi e scappa
Il delitto – come diceva Woody Allen – è “un buon lavoro”, ma solo nel breve termine. Se tutti rubano, nessuno produce e si finisce morti di fame. Ma specie da noi – tra condoni e corruzione – delinquere sembra una virtù
“Io credo che il delitto alla lunga renda bene e offra soddisfazioni: le ore di lavoro non sono molte; non dipendi da nessuno; viaggi; conosci gente interessante... Insomma, è un buon lavoro, in generale”. Molti dei lettori avranno riconosciuto in queste parole il tocco ironico di Woody Allen, che le fa pronunciare all ’ irresistibile Virgil Starkwell in Prendi i soldi e scappa (celebre pellicola del 1969).
Virgil: “Vediamo... ecco... io penso che, facendo un calcolo approssimativo... Che cosa è oggi, mercoledì?”.
Louise: “Sì”.
Virgil: “Dieci anni!”.
Sarà anche vero che il delitto offra dei vantaggi (sia “un buon lavoro” secondo le parole di Woody/Virgil), ma generalmente comporta il rischio di pene, e ciò deriva dal fatto che compiere delitti significa violare delle regole e spezzare il patto della convivenza civile. Lasciamo ora da parte i riferimenti a Hollywood e ripartiamo dalla nostra Costituzione, che all’art. 2 così recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ogni riferimento ai diritti implica uno speculare richiamo ai doveri: infatti qualunque dovere, positivo o negativo, corrisponde a un diritto di altri soggetti. “Non uccidere” corrisponde al diritto alla vita. “Non rubare” corrisponde al diritto di proprietà. “Non diffamare” corrisponde al diritto alla reputazione e così via. Torniamo all’art. 2. Le parole sono importanti: “riconosce e garantisce” significa che i diritti inviolabili sono intesi come una limitazione di sovranità. Infatti la Repubblica non li conferisce, ma li riconosce come a sé preesistenti e si impegna a garantirne l’osservanza. Altri diritti naturalmente sono conferiti dalla legge o dai contratti che, fra le parti, hanno la stessa forza della legge. Osservare la legge significa perciò rispettare i diritti degli altri e, al contrario, violare la legge significa non rispettare i diritti altrui.
Václav Havel, l’ex presidente della Repubblica Ceca scomparso nel 2011, diede una volta una definizione molto bella, anche se forse non del tutto completa, di legalità: “La legalità è il potere di chi non ha potere”. Il rispetto delle regole tutela infatti soprattutto i deboli: chi è forte (ovvero chi è in grado di usare la violenza, il denaro, o altri strumenti per condizionare gli altri) non ha bisogno di regole, o quantomeno ne ha meno bisogno. Sarebbe importante pensare alla legalità non in termini rigidi e claustrofobici, come una rete di obblighi e di divieti che infastidiscono e appesantiscono la vita quotidiana, ma come uno strumento prezioso e utile. Al di là dei principi etici – che pure, intendiamoci, sono importanti – dobbiamo convincerci che la legalità conviene, e infatti nei Paesi dove c’è minore illegalità di solito si vive meglio. Facciamo subito qualche esempio concreto. Sul breve periodo può anche sembrare che violare le regole paghi, o premi chi viola quelle regole, ma sul medio e lungo periodo ci si rende conto che il sistema non può funzionare. Se non venisse più represso il furto, inevitabilmente il numero di ladri aumenterebbe. Però, il numero dei ladri non può aumentare all’infinito e non può arrivare a superare il numero dei derubati: ci vorrà sempre qualcuno che produca reddito, oltre a qualcuno che lo distribuisca.
Il ladro, paradossalmente, svolge una funzione di redistribuzione del reddito, toglie qualcosa a chi ce l’ha e la tiene per sé, o la dà ad altri. Se però tutti ci mettessimo a distribuire reddito, senza che nessuno lo produca, prima o poi moriremmo tutti di fame; se quindi un intero popolo si dedicasse, per assurdo, all’attività del furto, tutti morirebbero di fame. Alterando questi meccanismi di autoregolazione si possono determinare conseguenze gravi, cioè il dissesto di un Paese! Lo stesso vale per altre forme di devianza, come il crimine organizzato, la corruzione, i reati nel settore d el l’economia. Un sistema può funzionare se le violazioni della legge sono l’eccezione, non la regola. Ci si dovrebbe attendere di conseguenza che le violazioni della legge siano pochissime. E questo in primo luogo per ragioni pratiche di opportunità, che sono mirabilmente riassunte nel precetto evangelico della reciprocità, che fin da bambini ci viene insegnato con le parole “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” (a essere precisi l’evangelista Matteo volge la regola in positivo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, Matteo 7, 12). Viceversa, ovunque si osserva una larga diffusione di comportamenti illegali, e purtroppo il nostro Paese non fa eccezione. Anzi, sembrerebbe che la crisi della legalità da noi sia più profonda e radicata che altrove. Già nel 1991 la Commissione ecclesiale Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale Italiana emise una nota pastorale intitolata Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese che denunziava con preoccupazione il mancato rispetto delle regole. E sembra essere cambiato ben poco negli ultimi trent’anni, se in più occasioni il Pontefice stesso si è duramente scagliato contro la dilagante corruzione, definita un cancro.
Per quale ragione un comportamento che dovrebbe essere ovvio – rispettare i diritti altrui – nel nostro Paese è frequentemente non mantenuto? Uno dei padri della moderna economia politica, Adam Smith, chiarì che non è dalla benevolenza del fornaio, del birraio o del macellaio che dobbiamo attenderci il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse. Allo stesso modo, non possiamo attenderci l’osservanza dei nostri diritti da parte di altri se non è evidente che osservarli conviene in primo luogo a loro. Aggiungiamo un tassello: è più difficile attenderci l’osservanza dei nostri diritti da parte di altri se non è evidente anche che dalla loro violazione derivano conseguenze sfavorevoli. Magari pesanti conseguenze sfavorevoli. In Italia la situazione al riguardo è addirittura paradossale perché esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi, e a rispettarle sono i fessi! Esiste una lunga tradizione volta a cercare di convincere le persone che non conviene osservare le regole. Qualche esempio? I condoni (in materia edilizia, in materia fiscale, ecc.) sono atti attraverso i quali viene perdonato chi ha violato la legge senza – di solito – apprezzabili conseguenze. E si tratta, appunto, di un costume tipicamente italiano. Certamente ci sono altri Paesi che mettono in atto provvedimenti simili, ma non con la frequenza con cui in Italia è stato fatto ricorso a tali provvedimenti.
È più difficile attenderci l’osservanza dei nostri diritti da parte di altri se non è evidente anche che dalla loro violazione derivano conseguenze sfavorevoli