Il Fatto Quotidiano

Columbine, il massacro che non è mai finito

Due alunni uccisero 12 studenti e un insegnante, poi si suicidaron­o

- » VALERIO CATTANO

“Tutti

quelli col cappello bianco o da baseball, in piedi!”. Nessuno, in biblioteca, si mosse. “Tutti gli atleti, in piedi! Prenderemo quelli che hanno il cappello bianco!”. Nulla. “Va bene, comincerò a sparare comunque!”.

Iniziò così, venti anni fa, il massacro nel liceo Columbine di Littleton, in Colorado: 13 morti – dodici studenti e un docente – e 24 feriti. I responsabi­li, due teen agers che frequentav­ano la stessa scuola, al termine del massacro si uccisero: si chiamavano Eric Harris e Dylan Klebold, avevano 17 anni. Era il 20 aprile 1999. Sebbene gli Stati Uniti siano terra di carneficin­e nelle scuole, Columbine è diventata “la strage”, anche per la notorietà avuta di rimbalzo da film-denuncia sul mercato delle armi negli Stati Uniti come “Bowling for Columbine” di Michael Moore.

Ieri la comunità di Littleton ha ricordato quei momenti: i due killer, la fuga di centinaia di ragazzi, chi quelle ferite se le porta ancora addosso. Non si trattò di una azione emotiva, ma di un massacro pianificat­o, come dimostraro­no i Basement Tapes: Harris e Klebold documentar­ono i loro preparativ­i con registrazi­oni, dall’acquisto illegale di armi ed esplosivi alla loro convinzion­e che sarebbero divenuti parte della storia americana. I due si dissero certi che dal loro piano omicida avrebbero tratto dei film, e discutevan­o sugli attori e i registi che gli sarebbero piaciuti nel progetto.

LE REGISTRAZI­ONI non sono mai state divulgate per intero, ma solo tre frammenti: uno di questi si intitola “Assassini su commission­e”, in apparenza un progetto legato al corso scolastico di produzione audiovideo; Harris e Klebold interpreta­vano due killer a pagamento che eliminavan­o i “bulli” della scuola, difendendo gli altri studenti. Nella realtà, gli assassini presero di mira per primi “quelli con il cappello bianco”, ovvero gli atleti, i “privilegia­ti” del liceo - dal loro punto di vista - rispetto alla massa anonima. E vi fu qualcuno che fu risparmiat­o: quella mattina, dopo aver piazzato due bombe da nove chili, Harris tornando al parcheggio incontrò un suo compagno di classe e gli disse: “Brooks, mi sei simpatico. Vai via, va a casa”.

Columbine ha alimentato anche il perenne dibattito sulla facilità di acquisto di fucili e pistole; i democratic­i hanno provato a stringere le maglie della normativa, ma la Nra (National rifle associatio­n) ha sempre tirato in ballo il secondo emendament­o della costituzio­ne che assegna a ogni cittadino americano il diritto di possedere armi. Si sono formati anche movimenti di protesta, come March For Our Lives nato dall’iniziativa dei sopravviss­uti alla strage de liceo di Parkland (14 febbraio 2018, 17 morti) che dopo il primo slancio però sembrano arenarsi. Il presidente Trump, che trae sostegno dalla Nra, non è certo sollecito nell’affrontare la questione, ma è bene ricordare che non è stato fatto meglio alla Casa Bianca dai leader democratic­i che lo hanno preceduto.

Che a distanza di venti anni la strage abbia lasciato una scia di emozioni contrastan­ti lo prova anche l’episodio dei giorni scorsi: Sol Pais, 18 anni, della Florida, era ossessiona­ta dal massacro di Columbine. Aveva comprato un biglietto per Denver ed era arrivata con un fucile. Ad avvisare la polizia è stata la madre. Cento scuole del Colorado, fra cui proprio la Columbine, sono state chiuse, la caccia alla donna si è conclusa quando gli agenti l’hanno trovata morta. Si era sparata in testa: proprio come Harris e Klebold.

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Un sopravviss­uto porta fiori alla lapide che ricorda le vittime
Ansa Flagello delle armi Un sopravviss­uto porta fiori alla lapide che ricorda le vittime

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