Juve, ottavo scudetto consecutivo in un campionato mai davvero partito
Allo Stadium finisce 2-1 contro la Fiorentina. Dopo la batosta Champions, Allegri può tirare un sospiro di sollievo
Ecosì fu scudetto, l’ottavo consecutivo. Record dei record, prezioso cerotto sulla ferita dell’Ajax. La Juventus, in Italia, rimane di un’altra categoria. Cosa che la rende pigra e, di conseguenza, vulnerabile non appena passa dai pesciolini rossi agli squali. Mancava solo la firma a piè di giornata, è arrivata quando ce ne sono ancora cinque da riempire, in modo tutt’altro che banale: allo Stadium, 2-1 alla Fiorentina – Milenkovic, Alex Sandro, autorete di Pezzella; applausi a Chiesa, palo e traversa – come se persino la cronaca non ne potesse più e, per questo, avesse delegato a una rivale storica la seccatura del timbro, poco dopo il titolo delle ragazze a Verona, il secondo di fila. È stato, come certificano la classifica e le modalità di consegna, lo scudetto più facile, più “normale”, più grigio. Troppo muscolosa, la Juventus. Troppa magra, la concorrenza: dai travagli societari delle milanesi alle turbolenze fisiologiche delle
romane; compreso quel Napoli, l’ultimo ad arrendersi, che nel trasloco da Maurizio Sarri a Carlo Ancelotti ha smarrito pezzi d’intonaco e d’identità.
VENTIQUATTRO vittorie e tre pareggi in 27 partite: è il pugno sul tavolo che racconta, più e meglio di ogni analisi, lo stacco, lo strappo, tutto. Poi Cristiano Ronaldo, naturalmente, e la corazza di Giorgio Chiellini. A sentire Aurelio De Laurentiis e Massimo Moratti, il marziano riassume e incarna il colpo del secolo. Andrea Agnelli non l’aveva preso “solo” per il campionato: per quello, bastavano i Matri e i Giovinco. L’obiettivo era la Champions: sarà per un’altra volta. La “solita”, altra volta. “Rimango al mille per cento”: Cristiano è stato di parola, 19 gol e una leadership mai in discussione, al di là dei sacrifici che, talvolta, i mattatori impongono. Penso a Paulo Dybala, il piccolo Sivori che il suo avvento ha trasformato in un Sivori piccolo piccolo, sradicato da quel ruolo di punta che, in tre stagioni, gli aveva fruttato un bottino di 52 reti. Era tornato Leonardo Bonucci, se n’erano andati un monumento e un investimento, Gigi Buffon e Gonzalo Higuain, un simbolo aziendale come Claudio Marchisio. E a settembre, addirittura Beppe Marotta: il manager al quale la famiglia aveva affidato la ricostruzione. Ha vinto, la Juventus, tra gli sbadigli della sua stessa gente e il brusio dei nemici, con distacchi così radicati e radicali da soffocare ogni tipo di errore arbitrale. Sei titoli senza Var e due con. Ha vinto incantando di rado, secondo la dottrina di Massimiliano Allegri, un anglo- toscano che ogni anno monta, smonta e rimonta la squadra, fedele a un motto - “il calcio gli è ‘scemplice’” – che fa imbestialire i “belpensanti” di Fusignano. Un peso massimo in una nuvola di pesi medi. Ma non per colpa sua. O esclusivamente dei suoi appetiti, del suo sentirsi fabbrica che deve produrre a ogni costo, lontano dai piagnistei nazional-popolari che le portano punti sottraendoli ai fornitori. Una Juventus ancora più thatcheriana: molto Mandzukic, il guerriero croato che fino a Natale, prima di crollare, ne aveva incarnato lo spirito, la fame, i limiti; e improvvisamente Moise Kean, il giovanotto che ne ha colorato la primavera. Urgono rivali più tosti, per far crescere proprio colei che, di norma, li divora.
OTTO SCUDETTI, 35 in totale. Ma anche le spine di Champions, i gol inutili di un Cristiano furioso, la borsa che cala, Allegri che Agnelli ha confermato più di nervi che di testa, e quel senso di frustrazione che, come un fantasma, esce dagli armadi d’Europa. Per alzata di mano, tutti voterebbero contro la Grande Noiosa. Ma attenzione a cosa ha detto Francesco Totti. “La Juventus, in Italia, è un esempio da seguire”. Ripeto: un esempio. Ribadisco: la bandiera della Roma. Che, senza Madama tra i piedi, di questi otto “scudi” ne avrebbe vinti tre.