DAL COACHELLA 2018 Homecoming, non chiamatela solo Beyoncé
Un album e un doc sui due concerti che celebrano l’afro-americanità
Definire “ep oc a le ” il concerto di Beyoncé al festival di Coachella dell’anno scorso – ribattezzato “Beychella”, tanto per capirci – è peccare di understatement. Così come è limitativo considerare la trentasettenne afroamericana una “cantante” come le altre. Quello della signora Knowles-Carter è ormai un progetto artistico totale, la sua una visione onnicomprensiva nella quale gli aspetti visuali, coreografici, teatrali e – diciamolo senza mezzi termini – politici sono importanti tanto quanto le canzoni. Per rendersene conto, non si avesse già avuta la rivelazione sulla via di Damasco con lo streaming in tempo reale o magari con l’album Lemonade di tre anni
fa, basta tuffarsi nell’incredibile son et lumière di H o m e c o mi n g , doppia uscita che celebra appunto la Beyoncé regina del Coachella (dove per la prima volta si è vista una headliner donna e nera).
È STATO INFATTI pubblicato l’album che ripropone integralmente il concerto (due concerti, in realtà), preceduto dall’apparizione su Netflix dell’omonimo film-documentario. Inevitabile partire da quest’ultimo per ricreare l’esperienza completa. Beyoncé entra in scena come un’ imperatrice, annunciata da rulli di tamburi e sbandieratori, ma dopo un breve stacco eccola in hot pants e felpa arancione da studentessa di college in mezzo a un centinaio di ragazze e ragazzi vestiti come lei: sono ballerini e ballerine, coristi e coriste, musicisti e musiciste in stile jazz- marching band. Tutti e tutte rigorosamente black. Lo spettacolo toglie semplicemente il fiato: imponente e studiato in ogni singolo dettaglio e in ogni singolo secondo – le immagini di backstage che raccontano la marcia di avvicinamento, durata un anno, danno un’idea del pesantissimo training psicofisico a cui si sono sottoposti l’artista e la sua crew – è una celebrazione fantasmagorica, circense, torrenziale e a tratti sinceramente commovente dell’afro-americanità. Con doverosi omaggi a Toni Morrison, Nina Simone, Maya Angelou e altre rappresentanti di quell’orgoglio nero e femminile che oggi ha come simbolo, inevitabilmente, una artista chiamata Beyoncé Knowles-Carter.