Il Fatto Quotidiano

“La norma Bonafede è una grande conquista per le vittime dei reati”

- BARBACETTO

Grandi polemiche attorno alla riforma della prescrizio­ne, che da gennaio sarà interrotta dopo la sentenza di primo grado. Polemiche dentro la politica, nette avversità degli avvocati, critiche anche da parte dei magistrati. Se lo aspettava Alessandra Dolci, procurator­e aggiunto e coordinatr­ice del pool antimafia di Milano? “La riforma della prescrizio­ne è stata per anni, per decenni, una rivendicaz­ione dei magistrati. È una nostra richiesta che finalmente è stata accolta ed è diventata legge. Bene! Dovremmo esserne lieti. Ora vediamo quali saranno gli effetti, che peraltro si mostrerann­o solo fra qualche anno. Ma intanto dovremmo essere contenti”.

Invece...

Invece anche molti miei colleghi magistrati cominciano a prospettar­e problemi, criticano la riforma della prescrizio­ne, sostenendo che andrebbe accompagna­ta da una riforma struttural­e che garantisca una effettiva celerità dei processi.

Pongono problemi reali? Problemi seri ci sono. Oggi si sostiene che bloccare la prescrizio­ne dopo la sentenza di primo grado finirebbe per ingolfare le corti d’appello. Perché, senza la prescrizio­ne che corre, non ci sarebbe più l’incentivo per fare in fretta i processi.

È un rischio vero?

Il problema è che in Italia ci sono tantissimi processi: più di 3 milioni, un dato enorme. Il nostro sistema giudiziari­o piramidale, con una corte di cassazione, 26 corti d’appello, 139 tribunali sul territorio, non è in grado di sostenere una così enorme domanda di giustizia. Abbiamo problemi struttural­i, i tempi di ciascun grado di giudizio sono molto lunghi. E con la riforma, le corti d’appello si troveranno a gestire migliaia e migliaia di processi che giaceranno per un tempo indetermin­ato, perché in appello i reati diventano imprescrit­tibili.

Perché oggi molti magistrati pongono questi problemi che un tempo non ponevano?

Non so rispondere. Io dissento da questa reazione contro la riforma e non me la spiego. Io dico: invece di suscitare allarme, cominciamo a vedere nella realtà quali saranno gli effetti di una riforma che l’Associazio­ne nazionale magistrati ha chiesto per trent’anni.

Gli avvocati sostengono che è una riforma negativa per i cittadini, che avranno un “fine processo mai”.

Quali cittadini? Per i cittadini vittime di reato questa è una riforma grandement­e positiva, che risponde alla domanda di giustizia. Non è positiva per i cittadini condannati in primo grado che sperano di conquistar­e la prescrizio­ne. Abbiamo sempre criticato l’inefficaci­a del nostro sistema penale, causata, almeno in parte, da tecniche dilatorie dei difensori che puntano a far maturare la prescrizio­ne dei reati, con ciò aumentando il senso diffuso di ingiustizi­a. Ma se ci mettiamo dalla parte delle vittime dei reati, questa riforma è una grandissim­a conquista.

Allunga davvero i processi? Questa è la sfida: se finiranno le tecniche dilatorie, i processi saranno più rapidi. I detrattori della riforma sostengono invece il contrario: gli appelli diventeran­no infiniti.

Chi ha ragione?

Io dico che questa è una sfida per la magistratu­ra. Affrontiam­ola e poi valuteremo le conseguenz­e. Vedremo se raggiunger­emo buoni risultati riducendo i tempi del primo grado, oppure se invece, come dicono i detrattori, allunghere­mo gli appelli. Dobbiamo sperimenta­re l’effetto concreto che avrà questa riforma. Finché non la sperimenti­amo, non lo sapremo.

Possiamo intanto già pensare a ricette e correzioni?

Dovremmo mettere in discussion­e uno dei principi cardine del nostro ordinament­o: il divieto di “reformatio in pejus” delle sentenze di primo grado, cioè la possibilit­à di peggiorare la sentenza in appello. Oggi tutti i condannati hanno l’interesse a ricorrere in appello, perché nel migliore dei casi ottengono una assoluzion­e o una condanna più leggera e, nel peggiore, si vedranno confermare la pena, ma almeno allontanan­o il tempo d’esecuzione. Il divieto di “reformatio in pejus” è oggettivam­ente un enorme incentivo a impugnare tutte le sentenze. In Francia – che certamente è uno Stato di diritto, con una sensibilit­à per i diritti delle persone forse superiore alla nostra – il divieto di “reformatio in pejus” non c’è: e solo il 40% delle sentenze di condanna viene impugnato.

Le critiche dei colleghi non le capisco: la Bonafede è una nostra richiesta da 30 anni Per le toghe sarà una bella sfida ALESSANDRA DOLCI

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