“Legge anti-moschee” Affossata dal Tar ma l’ambiguità sui luoghi di culto è un male
È emblematico che ogniqualvolta nel nostro Paese si cercano di risolvere vecchi problemi, come l’evasione o le lungaggini giudiziarie, si levino alti lai proprio da chi è interessato a mantenere la situazione in essere: il che dimostra la bontà di quel che si sta facendo. Così, in tema di prescrizione penale, è evidente che consentirne la maturazione anche nel corso del processo significhi incoraggiare impugnazioni pretestuose e concorrere ad allungare i tempi della giustizia. È pertanto incomprensibile che si contesti il tentativo di por fine a tutto ciò bloccandola al primo grado di giudizio, dato che in altri ordinamenti nemmeno esiste. Né si può motivatamente affermare che senza la prescrizione i processi non finirebbero mai, come se i magistrati a quel punto fossero liberi di lasciare i fascicoli giacere polverosi nei palazzi di Giustizia. Noi avvocati sappiamo che questo non può succedere per ovvi motivi disciplinari e che i giudici italiani, sia in civile che in penale, sono tra i più “produttivi” per numero di sentenze. Altrettanto singolare è voler stabilire una durata predeterminata per ogni fase processuale, perché diversa è la natura e la complessità dei singoli procedimenti: ci si dovrebbe preoccupare non solo dei tempi ma anche della qualità delle decisioni.
DIRITTO DI REPLICA
Abbiamo letto con interesse l’articolo di Salvatore Cannavò sul Fatto di ieri. Le considerazioni dell’autore spaziano su vari temi riguardanti la nostra azienda con una impostazione univoca e sconcertante: descrivere un’impresa che, senza preoccuparsi dei suoi dipendenti, in particolare di quelli italiani, ha badato solo agli interessi dei propri azionisti. È assolutamente falso. Tutte le operazioni, e sono veramente tante, fatte negli ultimi quindici anni hanno sempre tenuto ben presente gli interessi di tutti gli stakeholder, a cominciare dalle nostre persone e in particolare proprio da quelle che lavorano in Italia. Nel
GENTILE REDAZIONE, sono un cittadino milanese. Ho letto che la Consulta ha smontato la legge regionale del 2015 che regolamentava la costruzione di nuovi luoghi di culto. I giudici hanno stabilito che la libertà religiosa è più forte della discrezionalità di un sindaco (che tra l’altro, se non ricordo male, non aveva vincoli di tempo per decretare sì o no all’apertura di una moschea, per esempio). Io capisco le preoccupazioni legate alla sicurezza e al terrorismo, ma ci voleva la Consulta per stabilire che chiunque ha diritto di pregare liberamente nella città in cui vive? Eppure la Lombardia è una terra civile...
GENTILE FILIPPO, la Consulta, con la sentenza n. 254 che ha accolto i rilievi del Tar, ha annullato la legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, per aver limitato incostituzionalmente la libertà di culto. Nata come disposizione di natura urbanistica, battezzata da subito “legge anti-moschee” nel dibattito politico, faceva degli spazi e della pianificazione un cavillo per impedire che le sedi delle associazioni culturali islamiche in Lombardia potessero essere riqualificate come luoghi di culto, o che se ne potessero costruire di nuovi. Ed è lo scontro con l’assurdità: se il problema fosse stata una preoccupazione legata al terrorismo, nulla avrebbe proibito di promulgare una legge a proposito. Cosa collegherebbe terrorismo e “attrezzatura religiosa”, o ancora terrorismo e pianificazione urbanistica? Esistono dati che mostrino un aumentato rischio di terrorismo nelle “strutture religiose” e non, per esempio, in sedi di associazioni o ristoranti? Oltre ai punti che ricorda nella sua lettera, è però anche compito delle comunità musulmane quello di uscire da ogni ambiguità. Il Tar riferisce nella sentenza il caso dell’Associazione Culturale Madni, nel suo statuto “volta a mantenere e valorizzare le tradizioni culturali dei paesi di origine dei musulmani residenti nel territorio 2004 i dipendenti italiani del gruppo Fiat – che all’epoca racchiudeva in una sola società attività diverse ( semplificando: automobili, camion, trattori) – erano 71.300. Se il signor Cannavò avesse avuto la decenza di riferirsi ai dati ufficiali più recenti, avrebbe scoperto come i dipendenti che in Italia lavorano per le stesse attività (nelle società FCA, CNHi, Ferrari) ammontano oggi a… 77.220! L’accordo con la Chrysler e a rafforzare il legame con i cittadini locali”, come una delle vittime della legge ora annullata. Una finalità religiosa non è neppure intuibile.
E della confusione tra immigrazione, cultura, Islam, terrorismo – tutte problematiche da trattare in sedi distinte – nascono orrori come la legge anti-moschee. Anche nella civilissima Lombardia – patria dell’Azzeccagarbugli – fare del problema un’accozzaglia non può certo portare a una soluzione. Il dibattito per i luoghi di culto islamici sia condotto in termini chiari, e davvero universali, anche per evitare il bislacco opposto: il voler togliere i crocefissi dalle scuole, per come ha pensato l’attuale ministro dell’Istruzione, finire poi col chiedere di staccare le croci dalle chiese, e coprire queste stesse in ogni luogo, nel segno del più squinternato laicismo. poi non è stato, come sostiene Cannavò, “un passaggio per divenire costola provinciale di qualche mega-gruppo internazionale”, ma una grande operazione che ha permesso all’allora Fiat, oggi FCA, di acquisire la Chrysler dando vita a un grande Gruppo internazionale che sta ottenendo risultati economici eccezionali. Anche grazie alle nostre attività americane, siamo stati e siamo in grado di essere più forti ovunque, anche in Italia. Oggi nello stabilimento di Melfi vengono prodotte le Jeep Renegade che vengono vendute anche in America: un risultato straordinario, che sarebbe semplicemente impensabile senza le scelte che abbiamo fatto. La realtà, in estrema sintesi, è che quindici anni fa la nostra era un’azienda in grandissima difficoltà con un futuro incerto. Oggi invece è un grande Gruppo internazionale con ottimi
A parte i dati sui dipendenti, non viene smentito nulla, in particolare l'ammontare stratosferico dei guadagni fatti dalla famiglia e quel +1251% nel total shareholder return cioè nel valore globale accumulato in dieci anni da Exor, la finanziaria degli Agnelli. Non ci sembra che i dipendenti della ex Fiat possano vantare simili guadagni. E la sola Jeep a Melfi può accontentare chi ci scrive, ma a Melfi c'è ancora il contratto di solidarietà per 1000 operai in seguito alla cessazione della Punto. Quanto ai dipendenti, abbiamo avuto la decenza, come sempre, di consultare i bilanci ufficiali. L’occupazione nel gruppo è cresciuta a livello mondiale da 135 mila a 198 mila dipendenti (al netto dei dipendenti di Cnh Industrial scorporata nel 2011), ma in Italia è rimasta sostanzialmente stabile (i dati precisi sono complicati, perché per gli anni passati, Fiat non fornisce i dati Paese per Paese). Nel bilancio 2018, il numero dei dipendenti Auto in Italia ammonta a 50.827, nel 2005 erano 77.070 comprendendo anche Cnh e Ferrari (anch’essa scorporata in seguito). I dati qui forniti sono diversi. Ma non mostrano balzi in avanti. E infatti il fatturato in Italia è passato dai 13 miliardi del 2004 agli 8,8 miliardi del 2018. Invece è la stessa Fim-Cisl che, a gennaio 2019, indica come gli ammortizzatori sociali del gruppo interessino il 12-15 per cento della forza lavoro. Voi siete certamente divenuti un grande gruppo mondiale, ma la situazione in Italia non è migliorata. Il punto, che davvero riguarda la decenza, è questo.
I NOSTRI ERRORI
Ieri, nel richiamo in prima pagina dell’articolo di Antonella Mascali sull’ergastolo ostativo, abbiamo erroneamente scritto Cassazione al posto di Corte costituzionale. Ce ne scusiamo con i lettori.