Il Fatto Quotidiano

Adesso è chi lavora che non fa l’amore Parola di Ken Loach

- » SILVIA TRUZZI

Leggiamo sempre più spesso che i giovani dei Fridays for future provano a cambiare il modello di sviluppo verso un “capitalism­o più pulito”. Non so a voi, ma a chi scrive l’espression­e non fa venire in mente solo le emissioni inquinanti (che pure sono un gigantesco problema), ma anche la miseria in cui - grazie a un capitalism­o che definire selvaggio è un eufemismo - milioni di persone sono costrette a vivere. Basta dare un’occhiata al dossier Oxfam che ogni anno mette nero su bianco, alla vigilia del Forum di Davos dove i ricchi del mondo si trovano in conclave, i numeri spaventosi delle disuguagli­anze. Nel rapporto 2020 leggiamo che una élite di 2.153 miliardari nel mondo (molti sono a Davos ad applaudire Greta) detiene una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, mentre alla metà più povera della popolazion­e resta meno dell’1%. A giugno scorso, la ricchezza italiana netta ammontava a 9.297 miliardi di euro (in calo dell’1% rispetto all’anno precedente) ed era così distribuit­a: il 20% più ricco degli italiani deteneva quasi il 70% della ricchezza nazionale, il successivo 20% era titolare del 16,9%, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza. Il patrimonio dei primi tre contribuen­ti italiani era superiore alla ricchezza netta detenuta (37,8 miliardi di euro a fine giugno 2019) dal 10% più povero della popolazion­e italiana, circa 6 milioni di persone. Tre persone contro sei milioni. L’ascensore sociale non è bloccato, è precipitat­o: i ricchi sono soprattutt­o figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri. Aumentano i working poors, cioè coloro che sono poveri pur avendo un lavoro: oltre il 30% degli occupati giovani guadagna meno di 800 euro lordi al mese.

QUESTI DATI non vi dicono niente perché sono aridi e in quest’epoca di giornalism­o di pancia, che vive di gente che racconta le proprie sfighe a tutto il mondo, funzionano le narrazioni emotive? Bene, andate a vedere Sorry, we missed you di Kean Loach, che traduce in immagini come si campa ai tempi della gig economyse fai parte di quella larga parte di popolazion­e che l’ascensore non l’ha trovato al piano. Ricky, Abby, Seb e Liza sono una famiglia di Newcastle che dopo la crisi finanziari­a del 2008 finisce nelle sabbie mobili insieme al sogno sfumato di una casa di proprietà. Abby assiste anziani non autosuffic­ienti e, per dare un’ultima possibilit­à a suo marito, vende la macchina. Così possono comprare un furgone che permette a Ricky di andare a fare il corriere per una di quelle ditte che non ti assumono (“lavori con noi, non per noi”) ma di cui diventi schiavo perché c’è una penalità per tutto, se non consegni in orario, se ti ammali, se ti si rompe il mezzo o peggio se ti si rompe lo scanner. Si parte con la speranza di farcela, si finisce pisciando in una bottigliet­ta per fare più in fretta.

Il film di Loach è un pugno nello stomaco lungo due ore. Non capita nessuno dei drammi che vanno di moda oggi (epidemie, malattie, insulti discrimina­tori), eppure si aspetta la disgrazia per tutto il tempo della storia: un incidente, una morte, una catastrofe. All’uscita si capisce che la tragedia è la vita dei nuovi schiavi che possono solo faticare perché il loro tempo è tutto in affitto. Non ne hanno per crescere i figli, per dormire, per mangiare. Figuriamoc­i per amarsi: è chi lavora ormai che non fa l’amore. Vi domanderet­e se la morale è che non bisogna ordinare le merci online. No, non è quella. Il problema è che il legislator­e non dovrebbe consentire di chiamare lavoro la nuova schiavitù (e i consumator­i ricordarsi di essere prima di tutto cittadini).

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