Il Fatto Quotidiano

ORA L’ANTIMAFIA DEVE INDAGARE SU QUEI MESSAGGI

- » MARCO LILLO

La Commission­e parlamenta­re di inchiesta sulla mafia dovrebbe occuparsi dei misteri di Giuseppe Graviano. La sede opportuna per accertare quel che è accaduto nel 1992-1994 tra Palermo e Milano non può essere solo l’aula di un tribunale. Basta ascoltare l’interrogat­orio di ieri al processo “’ Ndrangheta Stragista” a

Reggio, su Radio Radicale, per capire che non si può delegare un accertamen­to simile alla magistratu­ra. Gli interrogat­ori, giustament­e, sono ancorati ai reati, alle competenze territoria­li. Puntano a dimostrare un capo di imputazion­e (gli attentati in Calabria del 1993-1994) e non estendono il raggio dell’analisi alla storia.

Il boss di Brancaccio, secondo le sentenze definitive è stato il regista della stagione terroristi­ca-mafiosa ordita da Totò Riina nel 1992 per mettere in ginocchio lo Stato a cavallo tra Prima e Seconda repubblica. Graviano è stato condannato con il fratello Filippo e altri boss per le stragi del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e del 1993 a Firenze e Milano oltreché per gli attentati del 1993 e 1994 a Roma.

Nel 2016-2017, in cella, mentre era intercetta­to, ha parlato di ‘Berlusca’, secondo l’interpreta­zione data dai magistrati del processo Trattativa alle sue parole, e ha lasciato intendere di considerar­e questo soggetto (Berlusca?) un traditore, che nel 1992 gli avrebbe chiesto una cortesia. Interpreta­zione contestata dalla difesa di Marcello Dell’Utri.

Nel 2018, la Procura di Firenze ha iscritto nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con l’ipotesi (già archiviata in passato e tutta da dimostrare) che possano essere i mandanti delle bombe del 1993-1994.

Ieri, durante l’interrogat­orio, Graviano ha lanciato nuovi messaggi. Il boss ha detto di aver saputo che innominati ‘imprendito­ri di Milano’ volevano che le stragi del 1992 e 1993 proseguiss­ero. Poi, ripercorre­ndo la sua saga familiare, ha parlato di suo nonno e di suo cugino. Il nonno, a suo dire, avrebbe investito a Milano nel 1970-71. Mentre il cugino, Salvatore Graviano, figlio di Benedetto, avrebbe dovuto riprendere il discorso delle quote di queste società. Con chi? Di quali società? Non lo ha detto. Poi ha spiegato che furono arrestati entrambi, lui e Salvatore, tra gennaio e febbraio 1994 (ma il cugino poi fu assolto) e tutto saltò. Quanto al nonno, Graviano ne aveva parlato già nel 2016 in cella al compagno di detenzione Umberto Adinolfi. Il boss, mentre era intercetta­to, fece capire che quell’antico investimen­to familiare del 1970 fosse all’origine dei contatti di Giuseppe Graviano a Milano. Non solo. Quando Fiammetta Borsellino, nel dicembre 2017, aveva incontrato Graviano in cella a Terni per aprire un dialogo con il boss condannato per l’uccisione del padre, lui ne aveva approfitta­to per dire che a Milano incontrava tanta gente quando era latitante. Sapendo di essere intercetta­to, aveva detto a Fiammetta “lo dicono tutti che frequentav­o Berlusconi. Più che io, era mio cugino che lo frequentav­a”. Il boss fu arrestato il 27 gennaio 1994 (per inquadrare il periodo storico, è il giorno dopo il discorso della ‘discesa in campo’di Berlusconi) al ristorante con il fratello, le mogli e un favoreggia­tore. Quest’ultimo aveva ospitato Giuseppe a Palermo durante la latitanza ed era salito per far giocare il figliolett­o al Milan. Graviano ha suggerito ai pm di indagare sui misteri di quell’arresto per trovare i mandanti delle stragi. Il 31 gennaio prossimo, l’interrogat­orio continuerà. I messaggi di Graviano potrebbero essere basati su fatti falsi, ma comunque non possono essere lasciati cadere così. I pm hanno fatto la loro parte. Ora tocca alla Commission­e di inchiesta raccoglier­e il testimone e fare la sua.

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