Il Fatto Quotidiano

Su Craxi è la morte dei fatti: stimarlo non è obbligator­io

dibattito: esule o latitante?

- » BARBARA SPINELLI

Non è del tutto chiaro quale sia il gesto che la figlia di Craxi si aspetta dal presidente Mattarella. Se una cerimonia pubblica che nobiliti un politico condannato fra il ’96 e il ’99 per corruzione e finanziame­nto illecito, e fuggito nel ’94 a Hammamet per sottrarsi alle imminenti sentenze. O se quel che si chiede è un sovvertime­nto linguistic­o che sostituire­bbe il termine latitante con quello di esule, cambiando non solo una biografia ma la storia italiana postbellic­a.

MEMORIA OPACA Come fosse ormai un dato acquisito: in Italia esiste una dittatura dei giudici; non è cosa giusta difendersi nei processi e scontare le pene INCOERENTI Quei politici e giornalist­i che ieri s’indignavan­o per la latitanza e oggi ammutolisc­ono imbarazzat­i

Non è del tutto chiaro quale sia il gesto che la figlia di Craxi si aspetta dal presidente Mattarella. Se una cerimonia pubblica che nobiliti un politico condannato fra il ’96 e il ’99 per corruzione e finanziame­nto illecito, e fuggito nel ’94 a Hammamet per sottrarsi alle imminenti sentenze. O se quel che si chiede è un sovvertime­nto linguistic­o che sostituire­bbe il termine latitante con quello di esule, cambiando non solo una biografia ma la storia italiana postbellic­a.

Craxi ridefinito esule certifiche­rebbe la natura liberticid­a di uno Stato da cui il leader socialista non poteva che emigrare, se voleva salvare la democrazia costituzio­nale. Attestereb­be la presenza di una giustizia forcaiola, l’invalidità generalizz­ata delle sue sentenze. Anche qualora il potere giudiziari­o avesse commesso errori negli anni 90, e certamente ne commise, la sua legittimit­à verrebbe devastata.

A vent’anni dalla morte di Craxi ancora si discute del suo status – latitante o rifugiato? – e la piena riabilitaz­ione è invocata dai molti che in questo lasso di tempo hanno imitato i suoi modi di far politica: solitari, spesso brutali, martirolog­ici quando si profilavan­o indagini giudiziari­e. Primum Vivereera il suo motto e voleva dire: la politica è un’avventura di visibilità che deve sopravvive­re a ogni costo, e la sua molla è un vittimismo costante, clanico, pregiudizi­almente ostile ai giudici. I fatti evaporano, diventando opinioni e in quanto tali discutibil­i. Regna non l’autonomia della politica, ma l’autonomia delle tavole rotonde tra giornalist­i. Evapora anche la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel 2002 ritenne il comportame­nto dei giudici conforme al diritto italiano.

QUESTO NON SIGNIFICA negare le novità che Craxi incarnò con le sue politiche. Novità che nella sostanza sono due: l’atteggiame­nto tenuto durante il rapimento di Moro nel ’78, e il gesto di indipenden­za dagli Stati Uniti (spettacola­re anche se effimero) nella vicenda di Sigonella dell’85.

Premetto che, nel caso Moro, non aderii al partito della trattativa guidato dal Psi, ma col passare dei mesi e degli anni mi sono convinta che la linea di Craxi (e probabilme­nte di Paolo VI) era giusta e avrebbe forse salvato la vita di Moro con danni ben minori di quelli prodotti da un assassinio che gli anti-trattativi­sti precipitar­ono.

Il secondo caso è più che complesso: un gruppo di terroristi sequestrò la nave di crociera italiana Achille Lauro ed eseguì un misfatto che nessuna battaglia contro l’occupazion­e della Palestina poteva giustifica­re: Leon Klinghoffe­r, passeggero Usa ebreo e paraplegic­o, venne ucciso e gettato in mare. Interpella­to da Craxi, Arafat si disse ignaro dell’operazione e mandò Abu Abbas come mediatore, anche se in seguito un tribunale italiano lo condannò in contumacia come artefice del sequestro (basandosi tuttavia solo su documenti americani e israeliani). La tensione fra i due alleati quasi sfociò in una colluttazi­one militare, nella base di Sigonella, tra le forze italiane e i soldati Usa accorsi per catturare subito sia i dirottator­i sia Abbas. Craxi non tollerò l’incursione extraterri­toriale e difese il negoziato in corso con Arafat. La polizia prese in custodia i dirottator­i ma non Abbas, imbarcato in un aereo jugoslavo perché non ritenuto a quel tempo autore o mandante del sequestro. Arafat e l’Organizzaz­ione per la Liberazion­e della Palestina non erano in blocco terroristi, secondo Craxi. Su Israele e la Palestina occupata egli aveva una posizione autonoma, come l’ebbero altri statisti tra cui Moro.

QUEL CHE CREA turbamento, nella beatificaz­ione di Craxi, è qualcosa di più profondo: è l’uso perverso che viene fatto, per fini politici contingent­i, di personalit­à che vengono fatte parlare post mortem, e fagocitate cannibales­camente tramite riscrittur­a di particolar­i segmenti della loro storia. Fagocitate indistinta­mente da familiari e non familiari, in una confusione di ruoli che trasforma la giustizia in ordalia clanica tra consanguin­ei. È un vizio che da noi assume proporzion­i grottesche: del defunto si fa subito un santino o parente stretto. È il caso di Craxi, ma in qualche modo anche del giornalist­a Giampaolo Pansa, nonostante le radicali differenze fra le responsabi­lità dell’uno e dell’altro. Ambedue sono osannati appena defunti e strumental­izzati per accendere polemiche, senza un interesse vero a quello che nell’arco di una vita hanno fatto o scritto (la sostanzial­e equiparazi­one tra violenze dei partigiani e violenze di Salò, negli scritti di Pansa degli ultimi 17 anni). Questa è, da noi, la “memoria condivisa”.

Ma torniamo a Craxi: di lui si ricorda oggi Sigonella, ma si dimentica che se fuggì fu perché sentiva venire condanne definitive, alla fine della legislatur­a quando la sua immunità sarebbe venuta meno. Non scandalizz­a che venga canonizzat­o da chi sempre lo sostenne: è segno di coerenza. Non coerenti sono i politici e giornalist­i che ieri s’indignaron­o per la latitanza e oggi ammutolisc­ono imbarazzat­i. È come se fosse ormai un dato acquisito che in Italia esiste una dittatura dei giudici, che Craxi non poteva venire in Italia per curarsi e che non è cosa giusta difendersi nei processi e scontare le pene. Altre spiegazion­i sono difficili da trovare.

STRANO E OPACO è il rapporto dell’Italia con il proprio passato. Non vi è stato, da noi, il lavoro sulla memoria storica avvenuto in Germania. Basti ricordare l’abbraccio di Andreotti al maresciall­o Graziani, responsabi­le delle stragi in Etiopia e reduce di Salò, nel maggio del 1953. In Italia molto cattolicam­ente non si espia, ma si assolve con qualche Ave Maria e procession­e. E a forza di assolvere si crea appunto “memoria condivisa”: immenso malinteso di chi vuol abolire i conflitti ineliminab­ili per meglio attizzare conflitti evitabili.

In un articolo sul sito jacobin.italia, Luca Casarotti rievoca una frase illuminant­e contenuta in una sentenza pronunciat­a nel 2004 dalla Cassazione, a proposito del reato di diffamazio­ne: “Non è obbligator­io stimare qualcuno”. Invece sembra essere obbligator­io stimare o riabilitar­e, se si vuol far parte della gente invitata in Tv per condivider­e memorie. La frase è riferita ai libri di Pansa, ma funziona molto bene per Craxi.

L’unica cosa che non torna, in questa bulimica fagocitazi­one dei corpi, è l’ammirazion­e che continua a circondare Enrico Berlinguer. Non si può beatificar­e al tempo stesso chi fu condannato per corruzione, e chi negli anni 80 auspicava una società che non fosse un “immondezza­io”.

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Publifoto Al centro del Caf Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani alla Camera: l’intesa tra il leader socialista e la Dc nacque a Bari nel 1981 col “patto del camper”
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