Il Fatto Quotidiano

La banda ultra-larga in ritardo di tre anni: a rischio i fondi Ue

Paradossi I lavori dovevano finire nel 2020: giovedì al governo è stato detto che si andrà al 2023. Problema: i soldi europei ‘scadono’ nel 2022

- » MARCO PALOMBI

La banda ultralarga dovrebbe far viaggiare la nostra connession­e Internet velocissim­a: è l’Agenda digitale europea, che pianifica per il 2025 la cosiddetta “Gigabyte society”, basata su una rete talmente veloce da poter ospitare le tecnologie 5G, il cosiddetto “Internet delle cose” che solletica gli appetiti di Stati e grandi imprese di Tlc. Al di là delle legittime opinioni su quanto questo sia necessario e/o positivo, emerge ora un dato di fatto spiacevole. Se la connession­e dovrà infatti essere velocissim­a, la realizzazi­one dell’infrastrut­tura necessaria lo è molto meno: in tre anni ha accumulato ritardi per tre anni (non è un refuso).

Tradotto: il progetto, lanciato a marzo del 2015, prevedeva il raggiungim­ento di una serie di obiettivi entro il 2020, l’altroieri nell’apposito Comitato governativ­o dal nome vagamente esotico (CoBUL) s’è scoperto che invece l’orizzonte più probabile è il 2023. Problema: i fondi comunitari, parte della programmaz­ione 2014-2020, vanno rendiconta­ti entro il 2022 e quindi si rischia che quei finanziame­nti vadano persi o, ammesso di dirottarli su altro in tempo utile, si debbano comunque recuperare quelli per la rete veloce dalla nuova programmaz­ione settennale, che però è ancora oggetto di negoziato.

PER CAPIRE serve ripartire dall’inizio. Il piano per la Banda ultra-larga (BUL, appunto) è stato lanciato cinque anni fa. Si trattava di aiutare con fondi statali ed europei la creazione dell’infrastrut­tura materiale nelle cosiddette “aree bianche”, quelle “a fallimento di mercato”. Insomma, quei comuni, quei quartieri o quelle aree (ad esempio quelle montane) in cui nessun operatore privato avrebbe mai portato la rete veloce perché non sarebbe convenient­e.

Si è scelto di procedere mettendo a gara vari lotti e affidando poi al vincitore la concession­e per 20 anni sull’utilizzo dell’infrastrut­tura stanziando pure i fondi per “invogliare” Pubblica amministra­zione (scuole, università, centri per l’impiego e aziende sanitarie), Pmi e famiglie a scegliere la BUL. Dell’attuazione di questo progetto – nel senso di stabilire il fabbisogno infrastrut­turale, predisporr­e le gare e controllar­e i concession­ari – è stata incaricata Infratel, società in house del ministero dello Sviluppo economico da martedì guidata da Marco Bellezza, finora consiglier­e di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli.

Qui, però, si parla del passato. Infratel ha fatto quel che doveva e predispost­o le gare: i primi due bandi, che coinvolgon­o 5.500 Comuni, sono stati aggiudicat­i nel corso del 2017; l’ultimo per Calabria, Sicilia e Sardegna, con altri 1.900 Comuni, s’è invece chiuso ad aprile 2019. Gli appalti li ha vinti tutti Open Fiber, la società partecipat­a alla pari da Enel e Cassa depositi e prestiti, e il cronoprogr­amma presentato dall’azienda e accettato da Infratel prevedeva la conclusion­e dei lavori in 36 mesi, entro il 2020 insomma. Il valore delle opere si aggira sui due miliardi e mezzo: circa un miliardo lo mette Open Fiber.

GIOVEDÌ PERÒ la stessa Infratel, che aveva già avvisato dei ritardi accumulati nei mesi scorsi, ha spiegato ai ministri riuniti nel CoBUL – a partire da quella all’Innovazion­e Paola Pisano – che probabilme­nte per finire tutto si arriverà al 2023, scatenando una notevole incazzatur­a tra i presenti anche (ma non solo) per la messa in discussion­e dei soldi Ue.

Curioso, peraltro, che la società pubblica – nelle ultime riunioni del Comitato governativ­o (19 dicembre e 23 gennaio) – non abbia mai parlato di colpe del concession­ario (nonostante Open Fiber per giustifica­rsi dei ritardi in Veneto, abbia persino sostenuto di non riuscire a trovare lavoratori). Un mese fa, l’allora ad Domenico Tudini aveva comunque fatto un quadro terribile della situazione: gli ovvi ricorsi giudiziari (risolti), alcune difficoltà progettual­i (s’è voluto riusare molte infrastrut­ture esistenti, che però spesso non erano nello stato descritto sulle carte) e una drammatica lentezza nell’ottenere i permessi. “Noi abbiamo 883 cantieri aperti, in qualche modo sospesi perché mancano i permessi: oltre 200 per colpa di Anas, oltre cento di Rete Ferroviari­a Italiana” e pure “molte società regionali” – nonostante i governator­i si lamentino assai dei ritardi – rispondono con lentezza esasperant­e.

R i su l t at o : a fine 2019 meno del 50% dei cantieri aveva terminato la p ro ge tt az ione esecutiva e solo poco più di duemila erano avviati. I lavori conclusi sono qualche decina, quelli “collaudati” pochissimi anche per il modello di intervento scelto da Open Fiber, che sfrutta la rete Enel.

Ora, al solito, si pensa a poteri in deroga da dare a commissari ad hoc per scavalcare ogni problema. Non un bel viatico per le gare sulle “aree grigie” (a parziale fallimento di mercato), che dovrebbero partire entro quest’anno.

La rete velocissim­a Le gare, predispost­e dalla pubblica Infratel, tutte vinte da Open Fiber (cioè Enel e Cdp)

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Ansa Era il 2017 Paolo Gentiloni inaugurava un cantiere per la banda ultra-larga. Accanto, la ministra Paola Pisano
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