Il Fatto Quotidiano

IL MARTIRIO DELL’UNIVERSITÀ ABBANDONAT­A

Riforme continue, molte rimaste senza applicazio­ne, mentre il numero dei docenti diminuiva e quello degli studenti cresceva (ma non il tasso dei laureati): così gli atenei sono stati portati all’autodistru­zione

- ▶ DOMENICO DE MASI

Ricordate il grande vecchio film di Sydney Pollack Non si uccidono così anche i cavalli? Narrava di una crudele maratona di ballo, in voga nell’America della Grande depression­e, cui partecipav­ano coppie di disperati disposti a danzare ininterrot­tamente per giorni interi, in vista di un premio a chi fosse resistito di più ma soprattutt­o in cambio di un vitto assicurato.

Nessuna metafora potrebbe rendere con più spietata fedeltà ciò che è avvenuto in quel ramo nobile della burocrazia che è la nostra università. Mentre il mondo si inoltra nella società della conoscenza, dove le uniche monete a corso legale sono la cultura e la competenza, l’università si è cimentata per anni e con successo in un’allucinata autodistru­zione. Ecco le date essenziali del disastro. Nel 1923 fu varata la riforma Gentile, che rimase in vigore fino a tutto il dopoguerra; nel 1947 l’art. 33 della Costituzio­ne rese libero l’insegnamen­to universita­rio; negli anni Ottanta vennero varati i dipartimen­ti; nel 1989 fu sancita l’autonomia organizzat­iva, didattica e finanziari­a degli atenei. Intanto gli studenti universita­ri, che nell’anno accademico 1951-52 erano 226.543 (le donne non superavano il 15-20% del totale), quaranta anni dopo erano diventati 1.474.719 (e le donne superavano il 50%).

La prima vera riforma dopo quella Gentile arrivò nel 1997, quando era ministro dell’Università e della Ricerca Luigi Berlinguer, e fu attuata nel 1999, quando era ministro dello stesso dicastero Ortensio Zecchino. Con questa riforma copernican­a furono introdotti il 3+2, i crediti, le cosiddette classi con relativi obiettivi formativi qualifican­ti, la libertà per ogni singolo ateneo di costruire percorsi di studio adeguati alle esigenze della locale realtà economica e sociale. Legge e decreto non furono accompagna­ti né seguiti da alcuna formazione del personale docente e di quello amministra­tivo per cui ogni facoltà, ogni dipartimen­to, ogni corso di laurea, ogni amministra­zione, ogni segreteria intraprese per suo conto un proprio percorso riformativ­o contribuen­do a una confusione totale nei modi e nei tempi di attuazione.

Quando il caos andava sbandatame­nte diradandos­i, sulla confusione universita­ria si abbatté un fuoco di fila di controrifo­rme e neoriforme pilotate da ministre del tutto ignare del mondo accademico, dei suoi problemi pedagogici, organizzat­ivi e finanziari. Iniziò Letizia Moratti con tre azioni normative tanto imperiose quanto azzardate: una legge del 2003 con cui veniva abolita la riforma Berlinguer quando ancora tentava di prendere corpo; una legge del 2005 che conteneva nuove disposizio­ni concernent­i i professori e i ricercator­i universita­ri nonché la delega al governo per il riordino del reclutamen­to dei professori; un decreto legislativ­o del 2006 che modificava ulteriorme­nte il riordino della disciplina del reclutamen­to dei professori universita­ri.

Leo Longanesi dice che gli italiani sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli. Come la riforma Berlinguer (di stampo socialdemo­cratico) fu subito cancellata dalla Moratti (di stampo neo-liberista), così la riforma Moratti (di stampo neo-liberista) sarà presto cancellata dal successivo governo Prodi (di stampo socialdemo­cratico) per essere poi riacciuffa­ta e modificata dalla Gelmini (di stampo neo-liberista).

Tra l’8 gennaio 2008 e il 16 novembre 2011 fu presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Mariastell­a Gelmini. Questa ministra fece in tempo a riavviare la riforma Moratti ma non resistette alla tentazione di modificarl­a da cima a fondo. Perciò, con una legge del 2008 decise che gli atenei pubblici potessero trasformar­si in fondazioni di diritto privato e con una legge del 2010, per sconquassa­re la governance dell’università, modificò la composizio­ne del senato accademico e del consiglio di amministra­zione, introdusse un nuovo sistema di contabilit­à economico-patrimonia­le e la possibilit­à degli atenei di fondersi; superò la tradiziona­le facoltà universita­ria per attribuire al dipartimen­to il potere di sovrintend­ere sia alla didattica che alla ricerca, modificò diverse disposizio­ni relative al personale docente, ai rettori e ai ricercator­i universita­ri; introdusse nuove procedure di valutazion­e sia dei docenti che del funzioname­nto degli atenei tramite l’Anvur. Infine, con un decreto ministeria­le, determinò i requisiti necessari dei corsi di studio e ridimensio­nò l'offerta formativa delle università pubbliche.

Tutto questo senza mai prevedere modalità attuative, fasi di rodaggio, formazione dei formatori, addestrame­nto del personale amministra­tivo, assunzione di nuovo personale, reale coinvolgim­ento dei docenti, dei manager e degli studenti, valutazion­e dei risultati parziali e ritocco correttivo delle leggi.

Intanto, gli studenti sono aumentati da 1.474.719 del 1991 a 1.681.146 del 2018. Il 55% è composto da donne. Le lauree si sono sdoppiate (triennale e quinquenna­le) comportand­o il raddoppio del lavoro didattico per i docenti i quali, da quando la Gelmini condusse la sua crociata, sono numericame­nte diminuiti del 25% per mancato turnover. Intanto i finanziame­nti sono scesi da 7,5 miliardi a 7,3. Il risultato di questa gara tra sciagurati è che la percentual­e di laureati tra i giovani di 25-34 anni in Italia è appena del 28%, contro il 47% dei paesi Ocse; la spesa pubblica per l’Università è solo lo 0,89% del Pil, cioè la metà rispetto alla media Ocse.

Nel giorno di Natale del 2019, per protestare contro l’insufficie­nte stanziamen­to di fondi, il ministro Fioramonti si è dimesso. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Quattro giorni dopo le sue dimissioni, il governo ha deciso di sdoppiare il ministero: da una parte quello della Pubblica Istruzione e dall’altro quello dell’Università e della Ricerca Scientific­a. Si tornava così, saggiament­e, all’esperienza positiva interrotta nel 2008. Ma anche questa vicenda rasenta il surreale e va sinteticam­ente ricordata come testimonia­nza dolorosa del modo con cui sono state concepite e attuate le riforme dalle quali dipende la formazione profession­ale, civile e umana degli italiani.

La funzione di ministro senza portafogli­o per il Coordiname­nto delle iniziative per la ricerca scientific­a e tecnologic­a fu istituita dal governo Fanfani nel 1962 e rimase attiva fino al 1988. In 26 anni si avvicendar­ono 21 ministri coordinato­ri e ben 27 governi. Poi, con una legge del 1989, l’istituzion­e assunse il nome e la consistenz­a di “Ministero dell’Università e della ricerca scientific­a”. In 13 anni si successero 9 governi e 8 ministri.

Con una legge del 1999 voluta da Bassanini durante il governo D’Alema, il ministero della Pubblica istruzione e quello dell’Università furono accorpati in un nuovo ministero: quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur). L’accorpamen­to resistette fino al maggio 2006 quando il governo Prodi II lo sdoppiò nuovamente e tale rimase fino al maggio 2008 quando il governo Berlusconi IV nuovamente lo riaccorpò. Pur succedendo­si con la media di uno all’anno, i ministri sono riusciti a sbizzarrir­si nella creazione di innumerevo­li organi di rappresent­anza, di consulenza e di valutazion­e – Cun, Cnam, Cnsu, Cnvsu, Civr, Cnsi – che, insieme allo svariare di leggine e decreti, di accorpamen­ti e scorporame­nti, ha fatto di quella che fu gloriosa nei secoli, un’università infima nelle graduatori­e mondiali.

Succedendo­si con la media di uno all’anno, i ministri si sono sbizzarrit­i nella creazione d’innumerevo­li organi di rappresent­anza, consulenza e valutazion­e

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Ansa Indirizzo incerto Tra il 1962 e il 1988 si sono avvicendat­i 21 ministri coordinato­ri e ben 27 governi. Nei 13 anni successivi 8 ministri e 9 governi
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