IL MARTIRIO DELL’UNIVERSITÀ ABBANDONATA
Riforme continue, molte rimaste senza applicazione, mentre il numero dei docenti diminuiva e quello degli studenti cresceva (ma non il tasso dei laureati): così gli atenei sono stati portati all’autodistruzione
Ricordate il grande vecchio film di Sydney Pollack Non si uccidono così anche i cavalli? Narrava di una crudele maratona di ballo, in voga nell’America della Grande depressione, cui partecipavano coppie di disperati disposti a danzare ininterrottamente per giorni interi, in vista di un premio a chi fosse resistito di più ma soprattutto in cambio di un vitto assicurato.
Nessuna metafora potrebbe rendere con più spietata fedeltà ciò che è avvenuto in quel ramo nobile della burocrazia che è la nostra università. Mentre il mondo si inoltra nella società della conoscenza, dove le uniche monete a corso legale sono la cultura e la competenza, l’università si è cimentata per anni e con successo in un’allucinata autodistruzione. Ecco le date essenziali del disastro. Nel 1923 fu varata la riforma Gentile, che rimase in vigore fino a tutto il dopoguerra; nel 1947 l’art. 33 della Costituzione rese libero l’insegnamento universitario; negli anni Ottanta vennero varati i dipartimenti; nel 1989 fu sancita l’autonomia organizzativa, didattica e finanziaria degli atenei. Intanto gli studenti universitari, che nell’anno accademico 1951-52 erano 226.543 (le donne non superavano il 15-20% del totale), quaranta anni dopo erano diventati 1.474.719 (e le donne superavano il 50%).
La prima vera riforma dopo quella Gentile arrivò nel 1997, quando era ministro dell’Università e della Ricerca Luigi Berlinguer, e fu attuata nel 1999, quando era ministro dello stesso dicastero Ortensio Zecchino. Con questa riforma copernicana furono introdotti il 3+2, i crediti, le cosiddette classi con relativi obiettivi formativi qualificanti, la libertà per ogni singolo ateneo di costruire percorsi di studio adeguati alle esigenze della locale realtà economica e sociale. Legge e decreto non furono accompagnati né seguiti da alcuna formazione del personale docente e di quello amministrativo per cui ogni facoltà, ogni dipartimento, ogni corso di laurea, ogni amministrazione, ogni segreteria intraprese per suo conto un proprio percorso riformativo contribuendo a una confusione totale nei modi e nei tempi di attuazione.
Quando il caos andava sbandatamente diradandosi, sulla confusione universitaria si abbatté un fuoco di fila di controriforme e neoriforme pilotate da ministre del tutto ignare del mondo accademico, dei suoi problemi pedagogici, organizzativi e finanziari. Iniziò Letizia Moratti con tre azioni normative tanto imperiose quanto azzardate: una legge del 2003 con cui veniva abolita la riforma Berlinguer quando ancora tentava di prendere corpo; una legge del 2005 che conteneva nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari nonché la delega al governo per il riordino del reclutamento dei professori; un decreto legislativo del 2006 che modificava ulteriormente il riordino della disciplina del reclutamento dei professori universitari.
Leo Longanesi dice che gli italiani sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli. Come la riforma Berlinguer (di stampo socialdemocratico) fu subito cancellata dalla Moratti (di stampo neo-liberista), così la riforma Moratti (di stampo neo-liberista) sarà presto cancellata dal successivo governo Prodi (di stampo socialdemocratico) per essere poi riacciuffata e modificata dalla Gelmini (di stampo neo-liberista).
Tra l’8 gennaio 2008 e il 16 novembre 2011 fu presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Mariastella Gelmini. Questa ministra fece in tempo a riavviare la riforma Moratti ma non resistette alla tentazione di modificarla da cima a fondo. Perciò, con una legge del 2008 decise che gli atenei pubblici potessero trasformarsi in fondazioni di diritto privato e con una legge del 2010, per sconquassare la governance dell’università, modificò la composizione del senato accademico e del consiglio di amministrazione, introdusse un nuovo sistema di contabilità economico-patrimoniale e la possibilità degli atenei di fondersi; superò la tradizionale facoltà universitaria per attribuire al dipartimento il potere di sovrintendere sia alla didattica che alla ricerca, modificò diverse disposizioni relative al personale docente, ai rettori e ai ricercatori universitari; introdusse nuove procedure di valutazione sia dei docenti che del funzionamento degli atenei tramite l’Anvur. Infine, con un decreto ministeriale, determinò i requisiti necessari dei corsi di studio e ridimensionò l'offerta formativa delle università pubbliche.
Tutto questo senza mai prevedere modalità attuative, fasi di rodaggio, formazione dei formatori, addestramento del personale amministrativo, assunzione di nuovo personale, reale coinvolgimento dei docenti, dei manager e degli studenti, valutazione dei risultati parziali e ritocco correttivo delle leggi.
Intanto, gli studenti sono aumentati da 1.474.719 del 1991 a 1.681.146 del 2018. Il 55% è composto da donne. Le lauree si sono sdoppiate (triennale e quinquennale) comportando il raddoppio del lavoro didattico per i docenti i quali, da quando la Gelmini condusse la sua crociata, sono numericamente diminuiti del 25% per mancato turnover. Intanto i finanziamenti sono scesi da 7,5 miliardi a 7,3. Il risultato di questa gara tra sciagurati è che la percentuale di laureati tra i giovani di 25-34 anni in Italia è appena del 28%, contro il 47% dei paesi Ocse; la spesa pubblica per l’Università è solo lo 0,89% del Pil, cioè la metà rispetto alla media Ocse.
Nel giorno di Natale del 2019, per protestare contro l’insufficiente stanziamento di fondi, il ministro Fioramonti si è dimesso. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Quattro giorni dopo le sue dimissioni, il governo ha deciso di sdoppiare il ministero: da una parte quello della Pubblica Istruzione e dall’altro quello dell’Università e della Ricerca Scientifica. Si tornava così, saggiamente, all’esperienza positiva interrotta nel 2008. Ma anche questa vicenda rasenta il surreale e va sinteticamente ricordata come testimonianza dolorosa del modo con cui sono state concepite e attuate le riforme dalle quali dipende la formazione professionale, civile e umana degli italiani.
La funzione di ministro senza portafoglio per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica fu istituita dal governo Fanfani nel 1962 e rimase attiva fino al 1988. In 26 anni si avvicendarono 21 ministri coordinatori e ben 27 governi. Poi, con una legge del 1989, l’istituzione assunse il nome e la consistenza di “Ministero dell’Università e della ricerca scientifica”. In 13 anni si successero 9 governi e 8 ministri.
Con una legge del 1999 voluta da Bassanini durante il governo D’Alema, il ministero della Pubblica istruzione e quello dell’Università furono accorpati in un nuovo ministero: quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur). L’accorpamento resistette fino al maggio 2006 quando il governo Prodi II lo sdoppiò nuovamente e tale rimase fino al maggio 2008 quando il governo Berlusconi IV nuovamente lo riaccorpò. Pur succedendosi con la media di uno all’anno, i ministri sono riusciti a sbizzarrirsi nella creazione di innumerevoli organi di rappresentanza, di consulenza e di valutazione – Cun, Cnam, Cnsu, Cnvsu, Civr, Cnsi – che, insieme allo svariare di leggine e decreti, di accorpamenti e scorporamenti, ha fatto di quella che fu gloriosa nei secoli, un’università infima nelle graduatorie mondiali.
Succedendosi con la media di uno all’anno, i ministri si sono sbizzarriti nella creazione d’innumerevoli organi di rappresentanza, consulenza e valutazione