Il Fatto Quotidiano

All’Africa non servono gli aiuti, ma il commercio

- » GIULIANO GARAVINI

2020 ricorrono i 60 anni dell’“Anno dell’Africa” nel corso del quale 17 Paesi africani ottennero l’i n d i p e ndenza. Sarà l’occasione per riflettere sui perduranti rapporti di dipendenza tra Europa e Africa. Tony Blair, durante il recente Uk-Africa Investment Summit, ha invocato un aumento degli investimen­ti britannici (tra il 2014 e 2018 questi sono stati 14 miliardi di dollari, a fronte dei 72 miliardi cinesi e dei 34 miliardi francesi), e l’apertura di un “nuovo capitolo” nelle relazioni con il continente in vista della Brexit. Il presidente francese Macron ha ammesso che il colonialis­mo è stato “un errore profondo della Repubblica” e ha annunciato l’abolizione del “franco coloniale” Cfa, la contestata valuta legata all’euro utilizzata in gran parte dell’Africa francofona. È in corso la ratifica dell’African Continenta­l Free Trade Area, potenzialm­ente la più ampia area di libero scambio al mondo per numero di partecipan­ti. Sempre questo anno, dopo v en t’anni, si chiuderà la complicata revisione dell’accordo di Cotonou che lega l’Unione europea a 78 Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico ( Acp), la stragrande maggioranz­a dei quali africani.

I RAPPORTI economici fra Paesi africani ed europei si basano su un commercio ineguale. Gli Stati africani esportano quasi solo materie prime e risorse minerarie (70 per cento delle esportazio­ni). Gli europei esportano in Africa quasi solo prodotti industrial­i. Negli ultimi anni la bilancia commercial­e è stata favorevole agli europei (principale partner commercial­e africano). Le cose non vanno meglio dal punto di vista dei flussi finanziari. Secondo il rapporto Honest Accounts, tra rimpatrio dei profitti, elusione da parte delle multinazio­nali, rimborso del debito, traffici illegali, nel 2015 sono defluiti dall’Africa circa 40 miliardi di dollari in più di quanti ne siano entrati. Vengono drenate materie prime, risorse naturali e denaro. I saldi migratori negativi, se da un lato contribuis­cono ad alimentare le rimesse degli immigrati, dall’altra privano molti dei Paesi africani dei giovani più motivati.

La strategia dell’Unione europea sembra oggi non si discosti di molto da quella adottata fin dagli anni 80: il decennio perduto nel quale la crisi del debito ha gettato i Paesi africani in pasto alle politiche di “aggiustame­nto struttural­e” e di austerità richieste dal Washington Consensus. La strategia prevede aiuti allo sviluppo che condiziona­no le scelte politiche degli Stati riceventi, senza però migliorare significat­ivamente il tenore di vita degli africani. Per il prosdo, fa notare che di un commercio che vale oltre 100 miliardi di dollari l’anno, ai due Paesi non restano che 6 miliardi. Ghana e Costa d’Avorio stanno tentando di imporre una tassa all’esportazio­ne del cacao pari a 400 dollari per tonnellata e ipotizzano la creazione di un meccanismo per coordinare prezzi e produzione del cacao sul modello Opec. Se gli aiuti dell’Ue al Ghana ammontano a 323 milioni di euro per i sei anni (2014-2020), la tassa all’e sp or ta zi on e, qualora andasse in porto, avrebbe permesso al Ghana di incassare 360 milioni di dollari in più per il solo 2019.

PROPRIO la necessità di sostenere i prezzi delle materie prime, di riorientar­e economie totalmente dipendenti dalle esportazio­ni, di impedire il libero rimpatrio dei profitti delle multinazio­nali, di proteggere le imprese africane da una competizio­ne impari, sta animando la discussion­e sul profilo futuro dell’Afr ican Continenta­l Free Trade Area. L’idea che i Paesi esportator­i di materie prima dovessero coordinars­i per ottenere prezzi alti e stabili per le materie prime, nonché per strappare vantaggi tariffari per le industrie nascenti non è nuova. Risale alla United Nations Conference for Trade and Develo pme nt ( Unctad), creata nel 1964 sotto lo slogan “commercio e non aiuti.” Il dilagare di un quarantenn­io di neoliberis­mo, a partire dagli anni 80, ha fatto passare l’idea che aprirsi agli investimen­ti internazio­nali, smantellan­do en passant industrie e servizi di Stato, fosse l’unica soluzione per competere nell’ec o no mi a globalizza­ta.

Buona parte della soluzione alle questioni migratorie, aggravate dai cambiament­i climatici e da una popolazion­e africana che potrebbe raddoppiar­e a 2,5 miliardi nel 2050, passa dal rimettere in discussion­e il dogma libero commercio tra ineguali, supportand­o allo stesso tempo i governi africani nello sforzo di ottenere prezzi più alti e stabili per le loro esportazio­ni.

Dei beni venduti all’estero sono materie prime o minerarie

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