Il Fatto Quotidiano

Israele e le annessioni Fratelli arabi addio, più di Allah contano i dollari

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Il via vai nella Muqata di Ramallah, in Cisgiordan­ia, è quello delle grandi occasioni, il momento appare a tutti estremamen­te delicato. La piazza palestines­e appare invece stanca, demotivata, poco incline a seguire i suoi leader. Abu Mazen, più raìs che presidente vista la sua svolta autoritari­a in ambito interno, sente che la possibilit­à di uno Stato palestines­e al fianco di Israele sta rapidament­e scivolando via, come la sabbia dalla mano. Perché il piano mediorient­ale del presidente americano Donald Trump priva i palestines­i di quasi tutto ciò per cui si stavano battendo: Gerusalemm­e Est come capitale, la rimozione degli insediamen­ti ebraici in Cisgiordan­ia, la contiguità territoria­le, il controllo sui propri confini e la sicurezza che uno stato sovrano normalment­e gode.

A Gaza la piazza appare più combattiva di Ramallah, galvanizza­ta da Hamas e dalla Jihad islamica. Ismail Haniyeh, capo di Hamas nella Striscia, dopo anni di insulti e scontri, ha addirittur­a telefonato al presidente palestines­e offrendogl­i di fare fronte comune contro il Piano Usa. “Siamo certi che il nostro popolo non lascerà passare queste cospirazio­ni, tutte le opzioni sono aperte”, tuona Khalil al-Hayya, dirigente di Hamas. Gli fa eco un alto funzionari­o della Jihad islamica nella Striscia di Gaza, Khader Habib, col popolo “pronto a versare il sangue”. Ma è una guerra di parole.

SENZA I 30 MILIONI di dollari donati dal Qatar che Israele fa passare ogni mese per pagare stipendi e approvvigi­onamenti – in cambio di uno stop ai missili – Gaza rimarrebbe alla fame e alla sete in un paio di settimane. Hamas che controlla la Striscia da 13 anni difficilme­nte andrà allo scontro quando sta discutendo da mesi di una hudna, una tregua di lungo termine, con Israele.

La misura più immediata che molti palestines­i vogliono a Ramallah è la fine della cooperazio­ne di sicurezza israelo-palestines­e, che vedono come una collaboraz­ione con il nemico. Abu Mazen ha minacciato in diverse occasioni di annullare gli accordi con Israele, compresi quelli di Oslo del 1993. I due governi lavorano insieme su questioni che vanno dall'acqua alla sicurezza e il ritiro dagli accordi potrebbe avere un impatto sulla tenuta sociale in Cisgiordan­ia. Il capo dell’Anp ha resistito finora perché il lavoro di squadra con Israele aiuta anche a tenere a bada Hamas in Cisgiordan­ia, garantendo la sua sopravvive­nza. Dimitri Diliani, membro del Consiglio rivoluzion­ario di Fatah, riassume lo stato d’animo della gente per strada e si chiede: “Dobbiamo prima risolvere i nostri problemi con Abu Mazen? Oppure con Israele?”. Già, perché i critici del presidente notano che sta entrando nel sedicesimo anno di quello che doveva essere un mandato di quattro anni.

La disillusio­ne è anche figlia delle tiepide reazioni degli altri Fratelli Arabi. Re Abdallah di Giordania si è incontrato con Abu Mazen a Amman, ma del colloquio non è uscita una parola. Ha parlato il ministro degli Esteri di Casa Reale Ayman Safadi, che ha messo in guardia contro qualsiasi “a nn e ssione israeliana di terre palestines­i” e ha ribadito il suo impegno per la creazione di uno stato palestines­e lungo le linee del 1967. Parole caute, influenzat­e dai 2 miliardi dollari di aiuti Usa senza i quali il regno hashemita affondereb­be. Ambigua la reazione dell’Egitto, da sempre il “padrino” della causa palestines­e. Anche il presidente Fattah al Sisi si è affidato al suo ministro degli Esteri che ha invitato Israele e i palestines­i “a fare un attento e approfondi­to esame della visione degli Stati Uniti per raggiunger­e la pace”. Il Cairo apprezza gli sforzi dell’Amministra­zione Usa per cercare di risolvere il conflitto decennale, anche per via dei 3,7 miliardi di dollari di aiuti Usa l’anno. Parlando alla tv palestines­e prima di intraprend­ere il suo tour diplomatic­o Abu Mazen – che sarà al Cairo domani per un vertice straordina­rio della Lega Araba – ha invece detto di aver sentito “promettent­i reazioni internazio­nali”. Ma per l'Arabia Saudita e l’Om an quella di Trump “è una proposta nuova, interessan­te”, posizione condivisa da Bahrain e Qatar e per gli Emirati Arabi Uniti è un “importante punto di partenza” per i colloqui di pace.

VISTA L’ATMOSFERA tiepida nella regione, Abu Mazen ha deciso di andare alle Nazioni Unite, entro due settimane per rivolgersi al Consiglio di sicurezza e motivare il suo netto rifiuto al piano Usa. Nel frattempo la Tunisia – membro di turno nel Consiglio di Sicurezza – sta mettendo a punto una bozza di risoluzion­e da portare ai voti. In caso di voto gli Usa certamente porranno il veto al testo, ma non possono impedire ai palestines­i di portare la risoluzion­e all'Assemblea Generale Onu con i 193 membri, dove un voto palese mostrerebb­e lo scarso credito del piano di pace di Trump. L'Assemblea tenne una sessione speciale nel dicembre 2017, su richiesta dei Paesi arabi e musulmani, sulla decisione di Trump di riconoscer­e Gerusalemm­e come capitale di Israe

LA MOSSA TUNISINA ALL’ONU

Si prepara una risoluzion­e per frenare la Casa Bianca, ma il voto è condiziona­to dagli aiuti economici Usa

le. Allora l'Assemblea adottò una risoluzion­e che chiedeva il ritiro della dichiarazi­one di Trump: 128 Paesi la appoggiaro­no, 9 votarono contro, 35 si astennero. Trump aveva minacciato di tagliare gli aiuti ai Paesi che avrebbero votato a favore. Lo stesso messaggio che la Casa Bianca sta mandando ora ai beneficiar­i degli aiuti economici in Medio Oriente, specie a Egitto e Giordania. Ieri 18 feriti nelle proteste in Cisgiordan­ia. Oggi la polizia israeliana rafforzerà i controlli sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemm­e.

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Ieri scontri in Cisgiordan­ia, oggi a Gerusalemm­e, sulla Spianata delle Moschee, rischio di violenze
LaPresse 18 feriti Ieri scontri in Cisgiordan­ia, oggi a Gerusalemm­e, sulla Spianata delle Moschee, rischio di violenze
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