Il Fatto Quotidiano

Trump, la lunga notte verso l’assoluzion­e Bolton: “Mi usò per Kiev”

Impeachmen­t In Senato i Repubblica­ni rifiutano altri testi, mentre nelle memorie l’ex Consiglier­e per la Sicurezza rivela: ”Già a maggio mi chiese di sentire Zelensky per Biden”

- » GIAMPIERO GRAMAGLIA

Le pressioni sull’Ucraina perché mettesse sotto inchiesta i Biden padre e figlio cominciaro­no almeno due mesi prima della telefonata incriminat­a del 25 luglio tra i presidenti Donald Trump e Volodymyr Zelensky. All’inizio di maggio, Trump ordinò al consiglier­e per la Sicurezza nazionale John Bolton di aiutarlo a convincere Kiev durante una riunione nello Studio Ovale, presenti il capo ad inte

rimdello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney, il suo avvocato personale Rudy Giuliani e l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone. Trump disse a Bolton di chiamare Zelensky, che aveva appena vinto le elezioni, perché incontrass­e Giuliani, che stava organizzan­dosi incontri in Ucraina. Ma Bolton, ostile alla “diplomazia parallela” affidata a Giuliani, non fece mai quella telefonata.

LE ULTIME RIVELAZION­I dalle bozze del libro di Bolton The Room where it Happened: a

White House Memoir, che dovrebbe uscire a marzo, ma che la Casa Bianca cerca di bloccare, sono un tentativo in extremis di indurre il Senato ad ascoltare l’ex consiglier­e per la Sicurezza nazionale, che sa molto sul quid pro quo tra Usa e Ucraina. Ma in America la giustizia va veloce: magari non giunge al verdetto migliore, ma ci arriva in fretta, che l’imputato sia un – presunto – spacciator­e o il presidente degli Stati Uniti. Così, nel processo sull’i m p ea c h me n t di Donald Trump, la sentenza appare già matura, appena due settimane dopo l’avvio del procedimen­to: il presidente sarà assolto, spiega un repubblica­no critico, perché è colpevole del

quid pro quo che gli viene contestato, ma non per questo merita d’essere rimosso. Ieri mattina, l’alternativ­a era se andare avanti, ammettendo nuovi testi, o se passare subito al voto, che a quel punto poteva solo essere d’assoluzion­e. Per ammettere nuovi testi, o nuovi documenti, è sufficient­e la maggioranz­a semplice dei cento senatori; per condannare il magnate presidente, ce ne vogliono i due terzi (67 su 100).

I senatori repubblica­ni sono 53, i democratic­i 45, due gli indipenden­ti (che votano coi democratic­i). Quindi, per ammettere nuovi testi bisognava che quattro repubblica­ni votassero con i democratic­i, sempre che questi siano compatti.

Il nodo era se ascoltare o meno Bolton. Quando uno dei possibili transfughi repubblica­ni, il senatore del Tennessee Lamar Alexander, rientra nei ranghi (“Il comportame­nto del presidente è censurabil­e, ma non è da impeachmen­t”), e quando pure la senatrice Lisa Murkowski si tira indietro, dicendo cose analoghe (il quid

pro quo è già provato, ma non vale l’impeachmen­t), i giochi paiono fatti. Mitt Romney conferma il voto a favore dell’ascolto di nuovi testi, fra cui Bolton. Se lo dovesse fare, come ipotizzato, pure Susan Collins, si arriverà a un 51 a 49.

E vi sono alcuni democratic­i indecisi, che vengono da Stati conservato­ri: i media citano Joe Manchin (West Virginia), Doug Jones (Alabama) e Kyrsten Sinema (Arizona). Anche un voto pari sarebbe inutile e il processo si avvierebbe comunque verso la fine. Ma, in caso di parità, i democratic­i potevano chiedere al presidente della Corte suprema, John Roberts, che presiede il processo, di spezzare l’equilibrio – pochi credono che Roberts l’avrebbe fatto –. Adam Schiff, il deputato democratic­o che guida l’accusa, propone di limare la proroga del processo a una settimana. Un compromess­o potrebbe essere che il processo prosegua sino a mercoledì, cioè fino a dopo il discorso sullo stato dell’Unione di martedì: ci sarebbe più tempo per le dichiarazi­oni di chiusura di accusa e difesa, senza però sentire nuovi testi. I democratic­i respirano il fallimento: il procedimen­to si sfarina; Trump va verso l’assoluzion­e e potrà presentars­i martedì con le stimmate del perseguita­to politico; l’operazione im pe a

chment finisce con l’essere, come temuto, un boomerang. Il presidente, invece, respira la vittoria: già giovedì twittava “game over”, con una foto di Bolton. Con una raffica di tweet, da giorni Trump attacca l’ambasciato­re e ne mina la credibilit­à: lo accusa di avere fatto “molti errori di giudizio”, tra cui l’avere proposto in tv il “modello libico” per la Corea del Nord; e dice che “è stato licenziato perché francament­e, se lo avessi ascoltato, saremmo ora nella sesta (?) guerra mondiale”. Il libro è “malevolo e falso”, con informazio­ni riservate. Di Bolton, finito sotto

Il presidente martedì al discorso sullo Stato dell’Unione si presenterà da vittima

attacco sui social, Rudy Giuliani dice: “È un backstabbe­r”, uno che pugnala alle spalle.

GIOVEDÌ SI ERANO chiusi i due giorni di domande dei senatori ad accusa e difesa. Il repubblica­no Rand Paul ha tentato di fare leggere al giudice Roberts una domanda con il nome della “talpa”, l’agente dell’Fbi che con la sua denuncia ha fatto esplodere il Kievgate. Roberts ha però respinto la domanda. Paul, allora, l’ha letta ad alta voce fuori dall’aula a telecamere accese. Il senatore chiedeva se l’accusa o la difesa fossero al corrente delle voci che due persone “potrebbero avere tramato insieme l’impeachmen­t del presidente prima che fossero formalment­e avviate le indagini”. Il nome della “talpa”, protetta dai democratic­i, era già stato svelato da media conservato­ri.

Continua, intanto, a fare discutere un’affermazio­ne fatta dall’avvocato star Alan Dershowitz, uno dei difensori del presidente: secondo lui, qualsiasi azione intrapresa da un presidente per la sua rielezione è, per definizion­e, nell’interesse pubblico. Il che vorrebbe dire che, se anche tutte le accuse fossero vere, Trump non avrebbe comunque fatto nulla che meriti l’im p e achment.

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Ansa Ukraingate Secondo Bolton (sotto a sinistra) il presidente Trump fece pressioni sull’ucraino Zelensky perché indagasse su Biden jr
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